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Il ritorno del ‘buon selvaggio’

Prende spunto dall’immagine di Rousseau l’esposizione ‘L’impossible sauvage’, al Museo di etnografia di Neuchâtel fino al 26 giugno 2023

‘L’impossible sauvage’
15 dicembre 2022
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Due fatti si collegano alla mostra attualmente aperta al Museo di Etnografia di Neuchâtel (Men) intitolata ‘L‘impossible sauvage’: da una parte la polemica sulla presenza del lupo in diversi cantoni della Svizzera; dall’altra la notizia che in questi ultimi decenni, circa 50 milioni di esseri umani sono stati deportati per far spazio alla creazione di aree naturali protette, in Africa e Asia. Due situazioni emblematiche del rapporto ’uomo-natura’ ai nostri giorni. Un tema dalle mille sfaccettature, declinato in mostra lungo un percorso stimolante, strutturato sui tre piani dell’edificio centrale del museo, detto black box; uno spazio senza finestre che immerge il visitatore in un’atmosfera di magica teatralità, fatto di luci e ombre. Basta considerare il termine sauvage, traducibile con selvaggio, selvatico, incontaminato, brado, naturale, feroce, aspro... a seconda delle circostanze, del contesto, dei punti di vista, delle sensibilità personali. Ambiguità.

«La mostra – mi dice Yanne Laville, curatore e codirettore del Men – prende spunto dall’immagine del buon selvaggio di Rousseau, ma vuole andare oltre per confrontarlo con la realtà odierna. ‘Selvaggio’ è un’etichetta per molti versi infamante, un modo impiegato dall’etnografia del passato per gerarchizzare le culture e in definitiva per giustificare il colonialismo. Oggi si parla di popoli autoctoni, di indigeni o aborigeni, e su di loro proiettiamo valori e qualità che riteniamo di aver perduto: per esempio nel rapporto con la natura». Etichette da studiare più da vicino perché la realtà è sempre più sfumata e problematica di quanto non sembri a prima vista.

La città

Tre sezioni compongono la trama: si inizia dalla città, cioè nel luogo che per definizione è l‘opposto della natura. Invece il selvatico è ben presente: il verde pubblico e quello delle terrazze, volpi e perfino orsi che frugano nei nostri cassonetti dell’immondizia, animali esotici ritrovati nelle fogne. Ma non solo: una serie di vetrine propongono questa ambiguità in costante evoluzione. Per esempio: l’immaginario della musica rock, con spartiti musicali dai titoli emblematici: ‘Wild life’, ‘Wild word’, ‘Born to bee wild’, ‘Wildes horses’, titoli che paradossalmente esprimono il desiderio di rompere con la civiltà urbana e l’ordine costituito. «Insieme a questi – dice Laville – esponiamo con una strizzatina d’occhio stivaletti stile Elvis Presley accanto allo scheletrino di un’iguana che ha gentilmente fornito la pelle’. Dello stesso tipo l‘insieme leopardato per signora, gli orsacchiotti-péluche o la lampada da salotto con figura di felino in puro stile jungle-chic. Rinascita anche in campo linguistico con i termini di ’capitalismo selvaggio’ e di ‘sciopero selvaggio’. Non mancano i grandi artisti del ’900, da Picasso a Gaugin, che all’arte africana e a quella dei mari del sud si sono ispirati, sdoganando i ’primitivi’ di allora. E quanti emblemi oggi nelle bandiere di gruppi di motociclisti, sulle maglie delle squadre di hockey e perfino sulle divise della polizia francese, dove tigri, leoni, lupi, orsi e simili sono presenti in massa. Il selvaggio che risorge.

La foresta

La seconda sezione trasporta il visitatore nel cuore di una foresta, dove si incontrano i popoli cosiddetti autoctoni che amiamo credere vivano una vita semplice e frugale, in armonia con la natura. E qui sono molti i reperti provenienti dalle collezioni del Men a testimonianza dell’interesse dell’etnografia per gli oggetti emblematici delle culture dette un tempo ‘primitive’ o sauvages, quando l’uomo viveva felice, secondo l’immagine trasmessa da Rousseau. Un concetto arrivato fino alle varie utopie e al marxismo, con l’ideale di società armoniose, nelle quali l’uomo vive libero da ogni costrizione. Molti amerebbero ritrovare questo rapporto e infatti lo cercano in prima persona: lo raccontano i video girati dagli studenti dell’Istituto di Etnografia dell’Università di Neuchâtel che si ascoltano in mostra, come la testimonianza di un archeologo sperimentale che vive in una jurta nei boschi del Giura. Infine la ricerca di un’improbabile bestialità da far riemergere sotto la crosta della modernità, come fanno i Mamuthones in Sardegna o le figure del carnevale del Lötschental. Incontriamo anche gli Yukuna della Colombia, i loro sciamani e una cultura fatta di riti e danze mascherate, per quanto i contatti con la cosiddetta civiltà lo permette ancora.

Le testimonianze

La terza sezione infine, che riassume le precedenti, vuole mettere in discussione tutte queste affermazioni legate alla tematica, attraverso testimonianze accompagnate anche da composizioni artistiche originali. Chi visita la mostra deve scegliere a questo punto tre sentieri, tutti a fondo cieco però, a sottolineare l’impossibilità di trovare risposte univoche e definitive ai problemi fino a lì suscitati; è uno spazio di riflessione nel quale ognuno è invitato a fermarsi almeno un momento.

«Si pensa troppo per categorie opposte – conclude Yanne Laville – Natura/cultura, noi/loro, selvaggio/domestico, uomo/donna, qui/altrove, bianco/nero; abbiamo bisogno di modelli più complessi che tengano conto che i confini tra questi mondi sono più sfumati di quanto crediamo. Non sempre ciò che appare scontato lo è davvero come pure c’è spesso un rovescio della medaglia dimenticato. Abbiamo cercato di illustrare queste realtà in movimento che stimolano l’immaginazione e che non sappiamo dove ci porteranno. Lo so: lasciamo il visitatore con più domande che risposte, ma è esattamente ciò che vuole la filosofia del nostro museo».

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