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A proposito di Ennio Flaiano

Una specie di Gadda flemmatico che ha pubblicato sei libri da vivo e sei da morto. Moriva poco più di 50 anni fa, dopo la sua intervista più rivelativa

1910-1972
27 dicembre 2022
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"Un tempo commettevo l’errore/ di partire con la macchina da scrivere;/ oggi non credo al mio rancore/ porto il necessario per vivere". Così comincia la ‘Lettera di un commesso viaggiatore’ di Ennio Flaiano, una delle lettere in versi che ora compare ne ‘La valigia delle Indie’. La sua intervista più bella e rivelativa la rilasciò alla Radio della Svizzera Italiana, a Giulio Villa Santa, nel 1972. Rivelativa forse perché sarebbe morto solo due settimane dopo, il 20 novembre (poco più di cinquant’anni fa), colpito da un secondo infarto. L’intervistatore lo paragona a Saul Bellow che però, dice, lascia intatti dalla satira almeno ‘la solitudine, l’ignoto, la morte’, a differenza da lui la cui satira pare investire ogni cosa. Flaiano ringrazia e risponde che il paragone è sproporzionato, che Bellow è un grande scrittore e che la lettura di Herzog non ha potuto terminarla perché gli sembrava un libro suo: "Che se avessi avuto io quell’idea l’avrei scritto: malissimo ma l’avrei scritto. Certo Saul Bellow ha il vantaggio che crede ancora alla serietà della solitudine, dell’ignoto, della morte. Io credo alla solitudine, temo l’ignoto e sono terrorizzato dalla morte".

Ci dev’essere un punto dal quale in avanti, o indietro, l’amarezza non è produttiva. Produttiva letterariamente. Poca amarezza non arriva alla letteratura. Troppa può fare grandi cose. Tutto il campo che si estende tra i due estremi è il terreno infido che può dare qualche risultato o nessuno. E uno dei segreti forse è che non si mescoli con la mera polemica. Ennio Flaiano era una specie di Gadda flemmatico che ha pubblicato sei libri da vivo e sei da morto. Da morto quattordici, in realtà, ma qui terremo conto dell’ordine che rimisero al caos degli inediti Maria Corti e Anna Longoni, per Bompiani. Dovendo radunare tutto l’autore in due volumi, hanno iniziato dai secondi sei, ma il risultato sarebbe stato diverso di poco: nei due gruppi di sei c’è qualcosa di caduco (quasi niente) e il più di riuscito o memorabile. E nei volumi che l’autore non volle o non fece in tempo a stampare, c’è molto del suo meglio. Nella ‘Solitudine del satiro’, per esempio, o nel ‘Diario degli errori’.

Lo scrittore a cui si rimproverò più o meno direttamente – lui stesso se lo rimproverava – di non aver la mano o il fiato per il romanzo, ci lasciò uno dei romanzi maggiori, e originali, del Novecento non solo italiano. (Uno soltanto però, non sedici: sicché non si poteva dire romanziere, secondo molti critici). Senza l’esortazione-comando di Leo Longanesi probabilmente non ci sarebbe mai stato nemmeno quel solo romanzo, ‘Tempo di uccidere’. La vicenda è conosciuta e non smette di stupire: per l’estemporaneità della richiesta e per la riposta dell’amico, per la generosità del primo insomma che incontra la generosità dell’altro; perché un impulso tanto casuale ed esterno ha generato pagine così essenziali e distaccate. Definitive come un romanzo ultimo. Scritto ‘Tempo di uccidere’, al suo autore non restava che aggirarsi intorno ai suoi paraggi a un livello minore d’incandescenza. Con più ironia. Ed è più o meno quello che ha fatto, nella critica e nel cinema e nella scrittura "in proprio", il suo versante maggiore. La vicenda è questa, ridotta nello spazio più breve. Longanesi chiese a Flaiano di dargli un romanzo "per marzo" – si era a dicembre del 1946 –; Flaiano si mise a ridere e cambiarono discorso. Non ne parlarono più fino a marzo, quando il romanzo arrivò sulla scrivania di Longanesi. Lo scrisse elaborando l’esperienza, gli appunti, i ricordi della guerra in Libia. Fu pubblicato, nel 1947, e vinse il (primo) Premio Strega.

L’appunto, la nota

Alcune edizioni di ‘Tempo di uccidere’ riproducono in fondo al volume il diario di Libia che lo ha fatto nascere. ‘Aethiopia. Appunti per una canzonetta’. E chi ha letto il romanzo sa che il protagonista tiene un suo taccuino di riflessioni, inquietudini e paure. Si tratta del marchio di ogni libro dell’autore abruzzese: tutto nasce dall’appunto o dalla nota, e molti dei suoi protagonisti, di racconti o raccontini, tengono un diario o un quaderno appunti. Che cosa questo voglia dire, in Flaiano, lo sa bene il suo lettore. Nella nota, o nella sua nota, c’è tutto. Può essere narrativa, riflessiva, lirica, tragica, giocosa... Non ha il "contegno" (e le zeppe) dell’opera compiuta. E siccome è breve esige la perfezione dello stile. Yehoshua raccomandava una ventina di anni di scrittura di racconti prima di passare al romanzo. Quanti anni di romanzi ci vogliono per arrivare a scrivere uno dei micro-racconti o un ricordo di sei righe di Ennio Flaiano?

O anche una delle indolentissime, liete e disperate poesie. Come la ‘Lettera del commesso viaggiatore’, che termina così: "Colme di ipotesi restano le città,/ i desideri hanno un prezzo infamante./ Intollerabile, la verità/ se ti scopre da casa distante".

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