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Storia di un’amicizia, storia d’una passione (raccontare storie)

A colloquio con Marco Horat, autore di ‘Amici. Un dialogo che scorre lungo una vita’: ‘C’è un po’ di Leonardo e Friedrich in tutti noi’

Marco Horat
(Ti-Press/Infografica laRegione)
16 novembre 2022
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«Perché è un valore importante». È riassunta in questa breve e al contempo vastissima frase, la scelta di Marco Horat di scrivere un libro sull’amicizia. Il tono del secondo lavoro (l’antropologo, già giornalista Rsi, è pure autore di ‘Soprusi, storie di ordinaria sopraffazione’ uscito nel 2017) è dato fin dal titolo: ‘Amici. Un dialogo che scorre lungo una vita’ (Edizioni Ulivo). «Siamo in un’epoca nella quale tutti hanno un sacco di follower e amici sui social, ma probabilmente l’amicizia è qualcosa di diverso. Qualcosa difficile da definire, nonostante sia stata spiegata in mille modi e ognuno la viva in modo differente». È un valore importante, ci dice Horat, del quale «non di rado ci accorgiamo in particolar modo quando ci capita qualcosa di brutto o abbiamo bisogno di un sostegno».

Come accade a Leonardo e Friedrich. Si conoscono da giovani, poi le vicende della vita li portano altrove, «ma mantengono quel legame che può esistere tra persone che si incontrano appunto da giovani o in situazioni particolari come il servizio militare o gli studi». I due protagonisti di ‘Amici’ si incontrano, si allontanano, si avvicinano, si riallontanano; per poi ritrovarsi in una situazione non semplice: la malattia di Leonardo.

La storia di Leonardo e Friedrich è una ‘scusa’ per narrare altre storie?

La struttura di ‘Amici’, peraltro già alla base del libro precedente, parte dall’idea di avere una sorta di filo conduttore, sul quale si inseriscono altre storie un po’ come delle scatole cinesi; con l’attenzione a non forzare troppo la mano. A monte c’è la mia passione, che è di raccontare storie: in parte inventate, in parte sentite negli anni, in parte successe a me ma poi trasposte. Una passione che deriva anche dall’esperienza giornalistica. Alla radio, attraverso la parola si cerca di presentare vicende, situazioni, ambienti e cose che l’ascoltatore si deve immaginare. La stessa cosa penso succeda con un libro.

Il lettore conosce Friedrich attraverso i suoi racconti, e al contempo conosce anche Leonardo nelle rievocazioni dell’amico, benché per la maggior parte della storia Leonardo si ‘limiti’ a essere semplicemente lì. Perché far conoscere due personaggi con la voce e gli occhi di uno solo?

La figura di Friedrich in effetti è prevalente e ricorda situazioni, scelte che aveva date per scontate, in gran parte dato il suo carattere. Leonardo è apparentemente passivo, ma ha vissuto ed esiste; però non si sa bene se nella sua mente qualcosa si riaccende o meno, grazie all’incontro con l’amico.

Al centro della vicenda non c’è però la malattia. La condizione di Leonardo è finalizzata alla storia; è una situazione, quell’impressione di perdere il contatto con la realtà, in cui un po’ tutti ci si trova confrontati. Il contesto in cui si trova Friedrich porta invece a far riflettere chi viene a contatto con questi vissuti, sul se e cosa l’altro percepisca e a non dare nulla per scontato.

‘Amici’ è un libro che non vuole porre chissà quali grandi questioni filosofiche, anche se poi si parla delle cose della vita: la morte, l’amicizia, l’amore, che fanno parte in certa misura dell’esistenza di tutti.

Il dialogo a una sola voce, dal quale Friedrich esce per certi versi con più domande che risposte, è una sorta di autoanalisi?

Di fatto la situazione obbliga Friedrich a ricordare vicende, incontri, avvenimenti che lui aveva rimosso o accantonati; a favore di scelte professionali, lavoro, prestigio, denaro, vita di tutti i giorni. In fondo è ciò che facciamo un po’ tutti; a volte basta una musica, un incontro con una persona, un profumo a far tornare alla mente un episodio.

C’è qualcosa di Marco Horat nei due personaggi?

Non mi pare. Anche perché, in definitiva, non è nemmeno necessario conoscere l’autore. Dopo di che è forse inevitabile che in un libro ci sia qualcosa dello scrittore. In ‘Amici’ ho inserito qualcosa frutto del mio interesse per la letteratura nordica classica, più recente dopo anni di classici giapponesi. Per certi versi uso una scrittura simile: con stile asciutto e limando gli aggettivi, sia i giapponesi che i nordici lo fanno, entra subito in una certa atmosfera e in un certo mondo. Un modo un po’ più diretto (e assai diverso rispetto ad esempio all’Italia, dove il linguaggio è più fiorito), che lascia spazio all’immaginazione del lettore, a seconda della propria sensibilità e che poi ovviamente può piacere o non piacere.

Una vita spesa con le parole, prima parlate e ora anche scritte. Cosa è la parola per Marco Horat, cosa ha significato e significa ancora?

Banalmente è un mezzo per comunicare, incontrarsi con gli altri. Non tanto perché si abbiano verità da trasmettere, quanto perché il contatto, l’incontro, il confronto fanno parte della necessità di un individuo e della società in generale. Ci sono però delle differenze. La differenza è che alla radio (mezzo che attiva la fantasia e l’immaginazione dell’ascoltatore, molto più di tv o cinema o altre forme di comunicazione che dicono quasi tutto) spesso si parla a ruota libera; mentre per scrivere un articolo ci si deve pensare maggiormente e un libro, non per forza un capolavoro della letteratura, richiede un ulteriore sforzo, un ripensamento. La parola in definitiva è un gesto d’amore; significa anche mettersi in gioco, mettersi a nudo, mettersi di fronte a un’altra persona, ascoltatore o lettore che sia, rispettando i suoi gusti e giudizi. Chi ascolta o legge può amare o meno un personaggio di un romanzo, un tema trattato, una voce, un modo di parlare, il modo di raccontare. Ma raccontare rimane un gesto di rispetto nei confronti dell’altro.

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