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La brezza leggera e il peso della vita

Riflessioni a margine dei racconti sparsi ‘Ma liberaci dal male’, che del nostro collega Erminio Ferrari ci restituiscono la straordinaria essenza

La felicità di Erminio
14 novembre 2022
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In particolare per chi lo ha conosciuto c’è molto Erminio, da attingere dai racconti sparsi di "Ma liberaci dal male", pubblicazione postuma di Tararà Edizioni curata da Paola Giacoletti con l’appoggio di Marta, la figlia dell’autore. Su queste pagine ne abbiamo già scritto diffusamente, ma è esercizio illuminante scovare, fra le numerose ma mai ostentate citazioni, quelle che se non fossero state pronunciate da altri le avrebbe potute inventare lui lì per lì, con un sorriso appena accennato. Oppure quelle che se non le avesse inventate lui le potremmo tranquillamente attribuire ai Giganti di cui discorreva sbuffando, in salita, o magari scendendo, "che costa fatica ma poca gloria".

Forse Kierkegaard

Nel racconto "Ma liberaci dal male" c’è un gustoso riferimento all’Osvaldo, quello che fu il macellaio del padre. L’Ermi gli diede un giorno da bere quando quello, attaccato ai tubicini da un letto d’ospedale, tentava di bypassare le raccomandazioni mediche contrarie. Il risultato fu un mezzo pasticcio, con metà del liquido finito in pancia e l’altra metà sputacchiato. "E mi sono chiesto se è meglio provare a far del bene, sapendo che può far male; o non farlo, a fin di bene. E chi ha sete se la tiene". Un problema che già aveva interessato Kierkegaard – scrive Erminio, non escludendo peraltro di sbagliare filosofo – quando ricordava il caso della resurrezione di Lazzaro ad opera di Cristo. "Perché, si chiedeva K., perché riportarlo in vita per poi abbandonarlo a una successiva morte non meno certa?". E poi la chiosa, profondamente erminiana: "Posso immaginare che Cristo non lo fece come numero da illusionista – non ne aveva bisogno, siamo semmai noi a nutrirci di illusioni – ma mosso dalla pena per il dolore che straziava la sorella di Lazzaro. Perché la pietà non ha fini, è questa la morale: si può alleviare un dolore ed è già molto, forse è tutto ciò che ci è consentito fare, senza essere per forza signori del cielo e della terra". È una foto di ciò che l’Erminio è stato per chi ha avuto la fortuna di incrociare i suoi passi: lui il dolore altrui lo percepiva, subito, e parlandone se lo assumeva, cercando, con te, di capirlo e magari tingerlo di una sfumatura diversa, meno assoluta.

E l’andare a ficcarsi in improvvidi spazi, fisici e non solo, era la sua matrice: la montagna, con tutto ciò che ne può conseguire e tragicamente ne è conseguito; e quei luoghi della mente dove possono ugualmente albergare disperazione o ispirazione, dando ascolto a entrambe con uguale sincerità.

A proposito di posizionamento nel mondo, convinta e asciutta è la descrizione del suo, emerso come un’apparizione durante un’ascesa al Pizzo di Claro: "In questa epoca del controllo globale, solo lo spirito del contrabbandiere potrà tornare a scoprire gli spazi inutili alla Grande Produzione Mondiale, trovandovi terre incognite, vuoi per abbandono vuoi per improduttività. Defilandosi da strade e modi battuti, praticando alternative che non possono divenire programmi perché sarebbero già una loro condanna. L’inesplorato esiste dove gli occhi del mondo hanno smesso di guardare. Retroguardia, ecco dove stare".

Rivelare sé stessi

Perché l’Ermi, scrivendo, rivelava sé stesso (lo facciamo tutti; ma lui meglio). Straordinario, e sicuramente non voluto, un passaggio "testamentario" in cui si riferisce a un amico che altri non è, per noi che leggiamo, lui stesso; ma se avesse anche solo sospettato che leggendolo lo avremmo pensato, probabilmente non l’avremmo mai letto. "E allora avevo detto all’Angelo di un amico poeta che me ne aveva parlato, della Cima dell’Uomo, come della sua più coraggiosa, e tremebonda, salita. Del suo essersi sentito perso su quelle roccette finali, come su un crinale della vita. Lui che toccava cime ben più alte con il dono della parola che solo i poeti hanno, finendo per non riconoscere della vita altro che il più alto e il più basso. E difatti vi perse la sua. E non ci furono parole a salvarla. Ma da allora la Cima dell’Uomo, per me, è quell’uomo, perso nella propria parola, che dà e toglie, compila registri dell’esistenza leggeri come una brezza, troppo leggeri per chi così grande sente il peso dello stare al mondo".

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