Culture

Essere indifferenti al linguaggio dell’odio, ci muta in complici

Intervista alla filosofa Claudia Bianchi, ospite del Premio Möbius su ‘hate speech’, parole che possono ridurre al silenzio interi gruppi sociali

La filosofa Claudia Bianchi
17 ottobre 2022
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Da oltre 25 anni la Fondazione Möbius racconta le sfide del digitale: all’inizio si trattava soprattutto di opportunità, adesso vi sono anche i rischi. E uno di questi riguarda la diffusione online dell’odio, il famoso ‘hate speech’ al quale l’edizione 2022 del Premio Möbius ha dedicato una tavola rotonda con ospite Claudia Bianchi, filosofa del linguaggio e autrice del bel libro ‘Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio’ (Laterza 2021).

Professoressa Bianchi, partirei da una definizione, perché spesso quando si parla di ‘hate speech’ si pensa semplicemente a insulti.

Il termine hate speech è stato introdotto alla fine degli anni Ottanta in campo giuridico per identificare quelle forme di ostilità di un gruppo sociale contro un altro gruppo sociale, generalmente già oggetto di discriminazione. L’etichetta serve oggi a identificare dunque quelle parole, frasi, immagini, simboli, gesti, caricature, condotte ostili e offensive volte a causare danno a individui e gruppi storicamente oppressi e marginalizzati. Si tratta in sostanza della dimensione sociale dell’insulto e dell’odio: parole che scagliamo contro gli altri non per qualcosa che fanno ma per qualcosa che sono.

Nello studiare il linguaggio, e ancora di più il linguaggio d’odio, non possiamo fermarci al significato letterale delle parole.

Con le parole facciamo asserzioni sul mondo, ma anche domandiamo e ordiniamo, promettiamo e consigliamo, ci scusiamo e ringraziamo, e persino battezziamo navi e bambini, ci sposiamo e divorziamo, dichiariamo guerra e condanniamo a morte. Come diceva il filosofo britannico John Austin, "facciamo cose con le parole", cose che vanno molto al di là del loro contenuto o del loro significato letterale. Questo vale naturalmente anche per il linguaggio d’odio: a volte facciamo del male con le parole.

Il ricorso al linguaggio d’odio fa cose in un senso almeno duplice. Le espressioni di odio sono un’aggressione diretta a individui, gruppi, comportamenti percepiti come estranei e minacciosi: la valenza di aggressione è quella più evidente, anche perché la violenza verbale evoca e allude a quella fisica. Accanto a essa, meno evidente, c’è però un’altra funzione: le espressioni d’odio di molti (politici di professione ma anche individui comuni) devono essere viste come forme di propaganda. Le espressioni d’odio sono strumenti con cui credenze, atteggiamenti e comportamenti discriminatori vengono presentati come diffusi, normali o razionali. In questa prospettiva il linguaggio d’odio non solo comunica disprezzo e ostilità contro individui e gruppi, ma anche svolge opera di proselitismo di quel disprezzo e quella ostilità, incita alla discriminazione, all’odio e alla violenza.

Con le parole si possono fare tante cose, incluse ridurre al silenzio certe parole. Può spiegarci come accade?

Facciamo cose con le parole, ma a volte le nostre parole sembrano girare a vuoto nell’ingranaggio comunicativo: l’appartenenza a un gruppo sociale oppresso sembra distorcere e a volte annullare la possibilità di agire efficacemente nel mondo sociale, di costruirlo e trasformarlo. In filosofia chiamiamo questo fenomeno "riduzione al silenzio" (una nozione sviluppata dalla filosofa Rae Langton) che identifica i momenti in cui le nostre parole sembrano non fare presa e non incidere sulla realtà. Non per nostra incapacità, ma semplicemente per qualcosa che siamo e che a volte fa calare su di noi un velo di invisibilità.

L’esempio che fa Langton è quello del rifiuto di attività sessuali di una donna nei confronti di un uomo. Rifiuto reso problematico da credenze dannose sulle donne e sugli uomini e sulle loro relazioni, credenze rinforzate e propagate dalle più varie forme espressive, di intrattenimento o di cultura popolare: televisione e pubblicità, narrativa e cinema, riviste e canzoni, fino ai materiali pornografici. Prima fra tutte l’idea che le donne, o le donne "per bene", dicano no, ma intendano sì, che cioè desiderino quei rapporti sessuali a cui fingono di sottrarsi, e i rifiuti siano una sorta di messa in scena per conformarsi agli stereotipi di genere che richiedono loro di non apparire promiscue o troppo intraprendenti; e l’idea che ne segue, che cioè gli uomini siano giustificati nel ritenere insinceri e ignorare tali rifiuti, e nel persistere nelle loro avances. Stereotipi e pregiudizi sessisti decretano, ad esempio, che in certe circostanze l’atto del rifiuto fallisce – non conta come tale, non "entra in vigore", non obbliga il destinatario ed è come se la donna non avesse fatto nulla.

Abbiamo visto che la discriminazione viene spesso veicolata implicitamente. Come è possibile reagire in questi casi?

È innanzitutto necessario esplicitare i contenuti tossici, farli affiorare e uscire allo scoperto, per poi criticarli e contrastarli.

Sono molte le strategie di contrasto del linguaggio d’odio a nostra disposizione, strategie che ci impegnano come singoli oppure come gruppi, come semplici spettatori o come militanti. Oltre alla resistenza concettuale (filosofica, educativa o culturale), abbiamo anche forme di resistenza pratica. Possiamo innanzitutto identificare i discorsi d’odio e criticarli, sostenere le lotte in difesa dei diritti civili, dare riconoscimento e valore a identità inconsuete di donne e uomini, promuovere narrazioni alternative delle loro relazioni. Soprattutto, possiamo scegliere di non restare in silenzio, di non restare indifferenti, di non diventare complici – più o meno consapevoli. Come scriveva un altro filosofo inglese, John Stuart Mill: "Perché i malvagi raggiungano i loro scopi, non c’è bisogno d’altro se non che i buoni rimangano a guardare senza far nulla". Il silenzio, l’indifferenza o la superficialità con cui spesso accogliamo gli usi offensivi di altri corre il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione e legittimazione – e muta noi in complici e conniventi.

La 26ª edizione

Grand Prix a Skypull

Al sistema di produzione di energia eolica ad alta quota Skypull è stato attribuito il ‘Grand Prix Möbius Suisse’. Per la giuria si tratta di "una visione coraggiosa, che propone attraverso una soluzione innovativa la produzione di energia a basso costo, salvaguardando ambiente e paesaggio". Il ‘Grand Prix Möbius editoria mutante’ è andato a Cultura Campania per Procida Capitale italiana della Cultura 2022. "Fra le applicazioni presentate – si legge nella motivazione – quella di Cultura Campania offre a nostro avviso le maggiori potenzialità di sviluppo e viene premiata nell’auspicio che possa ulteriormente sviluppare la componente di metaverso partecipativo". A vincere il ‘Premio Möbius Giovani’ è stata Ilenia Canclini con #EcologicalDay fai vincere il clima; video attraverso il quale "l’autrice propone una riflessione sui luoghi comuni legati alla questione della sostenibilità ecologica, attivando nell’osservatore utili interrogativi sui propri comportamenti".

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