laR+ Il racconto

Camminare a Venezia

Siamo tutti come le donne e gli uomini di Giacometti: destinati a cadere ma, in attesa, camminiamo, un passo dopo l’altro, con ostinazione...

La foto in bianco e nero sarebbe rimasta nell’album di famiglia
(© Villi Hermann)
15 ottobre 2022
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Domani prendo l‘InterCity per Venezia e la mia testa lavora. Rivedo la foto dove mia madre, ragazza sorridente con un cappellino da signora in compagnia della sorella sorridente, in piazza san Marco tende ai piccioni la mano cosparsa di chicchi di grano. Che anno è? Le donne del Mendrisiotto avevano l’abitudine di andare a Venezia: per assolvere un rito, rifarsi dalla fatica quotidiana e svagarsi un po’. Andavano in gita, alcune in viaggio di nozze. E si lasciavano incantare dal Canal Grande, la strada d’acqua serpentante che non assomiglia a nessun’altra strada del mondo. La foto in bianco e nero sarebbe rimasta nell’album di famiglia.

Anch’io ricordo un vaporetto che sfilava davanti alla Ca’ d’Oro, nell’album della mia memoria. Era il 1964 e un gruppetto di ticinesi stravaganti era approdato in Laguna per aggiornarsi. Era l’anno della Pop Art: ma cos’è ’sta roba, una celebrazione artistica dei consumi o un’americanata? Si discuteva, allora.

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"Se vedemo dopo". Due portabagagli esotici alla stazione, puro accento veneziano. "Venetia est totus mundus", si diceva nel Rinascimento; oggi è "uno dei centri mondiali dell’alienazione turistica ", come ha detto Andrea Zanzotto. Un flusso continuo di valige trolley zaini borse sombreri borracce passeggini sacchetti bottiglie... Davanti alla stazione tre persone immobili col vestito della festa aspettano clienti per un corso biblico. Due operai coi pantaloni macchiati di bianco spiccano in mezzo al flusso. Milo, il mio nipotino di cinque anni, arriva con la grande casquette "Venezia" che gli arriva agli occhi e la maglia a righe da marinaio. Le prime cose che vede sono i pesciolini nell’acqua verde. Sul vaporetto due adolescenti biondissimi che sarebbero piaciuti a Thomas Mann si stanno addormentando, mentre passiamo davanti alla Giudecca: rassegnati al loro destino. "Quando io sarò papà e tu sarai bambino, ti comprerò le caramelle", dice Milo a Léon, il fratellino di tre anni.

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Il silenzio a Venezia lo cogli la mattina presto, quando un gatto bianco con il collarino attraverso la lunga calle di Santa Barnaba. Due piccioni beccuzzano le briciole sul selciato. Poi arrivano quelli della nettezza urbana, con il carrettone. I gabbiani, loro, sono esibizionisti e sfoggiano voli plananti sopra i canali, poi s’inazzurrano sopra la barca di verdura, frutta e fiori. I gabbiani, ci insegna Pedrag Matvejević in "L’altra Venezia" – uno dei libri più belli sulla città, un libro che "ci aiuta a scoprire accanto a noi ciò che raramente si guarda" –, vanno a morire in due luoghi sulla Laguna dove non va mai nessuno: "Vecchi ed esausti, macchiati di fango, sbattono le ali che non riescono più a sollevarli".

Un ragazzo nero con la cuffia nera cammina via veloce verso il lavoro e l’uomo che trascina "el careto" è già al lavoro, adesso deve affrontare gli scalini che danno accesso al ponte inarcato sopra il rio, ma d’un tratto l’esplosione: dal "careto" sono franati barili di ferro a rotoloni giù per gli scalini. "Tanto, muoio" sta scritto su una casa lì accanto: una scritta con il pennarello nero, da interpretare.

La vera meraviglia di Venezia è l’assenza di traffico automobilistico: come si sa, le auto ci rendono aggressivi vanitosi competitivi stupidi. Potenzialmente criminali: l’arcangelo che amministra la giustizia nel grande Giudizio Universale della Basilica di Torcello metterebbe gli automobilisti, sui piatti della bilancia che pesa le anime, dalla parte del male e li affonderebbe col forcone nel limo più immondo. Guardate, invece, questi bambini come giocano in campo Santa Margherita sotto i platani! Il mio nipotino ha trovato un piccolo occhio di vetro con la pupilla rossa. E un bambino del sestiere, in ritardo per la scuola, corre con lo zaino penzolante sul dorso. E i tacchi della ragazza che ondeggia risuonano cadenzati per tutto il campo. E il pescivendolo pensoso sventra i pesci sul suo banco. E passa una sposa col vestito bianco, forse in cerca dello sposo perduto tra le calli labirintiche. E non vedo invidiosi con i serpentelli negli occhi, come nel Giudizio di Torcello: quindi andremo tutti in Paradiso.

Il fatto di non spostarsi con l’auto è fondamentale. Ci umanizza. Tu vali per quello che sei, o che pensi di essere. Cammini e basta, qualunque sia la tua cultura, la tua povertà, la tua ossessione. Qui il senso della solitudine e della finitudine si fa più palpabile. Da nessuna parte ci si sente soli come in mezzo alla folla. Siamo tutti come le donne e gli uomini di Giacometti: destinati a cadere ma, in attesa, camminiamo, un passo dopo l’altro, con ostinazione. E talvolta con gioia. Siamo tutti come quel bambino che fa rimbalzare la palla contro l’abside della chiesa.

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In San Trovaso c’è l’ "Ultima cena" del Tintoretto, con il tavolo inserito in diagonale nella tela e il movimento scomposto degli Apostoli: l’intenso colorismo chiaroscurato dei veneziani. Che ritrovo alla Madonna dell’Orto, nello squarcio di luce sul quale si staglia la bambina della "Presentazione al tempio".

"Il pittore veneziano vede in modo più luminoso e sereno degli altri uomini", dice Goethe nel "Viaggio in Italia". Ecco di nuovo questa luminosità nella "Crocefissione "della Chiesa dei Gesuati, con un Cristo su un fondo di raggi luminosi, anche le vesti violacee delle donne doloranti sono accese. La luce, alle dieci di mattina, è intensificata dal sole che penetra da una vetrata. Guarda, c’è anche un filo d’ombra, proiettato sulla tela dalla catenella del turibolo che pende dal soffitto, e aggiunge una nota naturale alla musica dell’opera.

Trovo lo stesso colorismo, declinato in chiave novecentesca e più precisamente informale, nelle opere di Afro esposte a Ca’ Pesaro. E lo stesso, ma inabissato nella tenebra e desolazione dei nostri giorni, nelle opere di Anselm Kiefer "Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce", a Palazzo Ducale. Il mio nipotino, felicemente sopravvissuto all’attraversamento delle sale e dei corridoi del palazzo, ne riporta una forte impressione: una trama di enormi sbarre di ferro, gigantesche zampe di ragno: sono le prigioni, che la sera lui dipinge sul suo calepino. Le prigioni, dalle quali nessuno potrà mai fuggire.

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