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Eugenio Scalfari e il Crocianesimo

Riflessioni sull’attento osservatore delle vicende politiche e culturali dell’Italia, dall’efferato delitto Matteotti fino al lavoro de ‘Il Mondo’

Eugenio Scalfari in una foto del 2016
(Keystone)
30 agosto 2022
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La morte di Eugenio Scalfari (era il 14 luglio scorso), e il nutrito numero di contributi, di ricordi e di riflessioni in ricordo della sua affascinante personalità, ha messo soprattutto in luce la sua qualità di giornalista, di organizzatore culturale, di attento osservatore della realtà politica, culturale e sociale che ha attraversato nella sua lunga vita. In questo contributo tralasceremo il commento sulla sua vita professionale, per proporre alcune riflessioni sullo Scalfari attento osservatore delle vicende politiche e culturali, divenendone anche partecipe in prima linea, e assumendo, come tale, un ruolo di protagonista.

Una storia dentro la Storia

Nacque a Civitavecchia il 6 aprile 1924, poche settimane prima dell’efferato delitto Matteotti che segnò l’inizio dell’autentica dittatura fascista. Nella sua vita Scalfari visse tutti i regimi politici: il dominio fascista, vissuto prima nell’incoscienza infantile poi vittima dell’assillante propaganda, con l’ausilio della scuola, sempre più fascistizzata, e della chiesa. Sono da inserire in questo contesto alcuni articoli decisamente favorevoli al dittatore del giovanissimo Scalfari, frutto soprattutto del "lavaggio dei cervelli", come lo stesso successivamente riconobbe.

Seguì la resistenza al nazifascismo, a seguito della pronuncia del Gran Consiglio del Fascismo del 25 aprile 1943 e la cacciata da parte del Re di Mussolini, prontamente passato al servizio di Hitler, il clima cambiò, ponendo le basi per la reintroduzione del sistema democratico. Traguardo raggiungibile solo dopo aver sconfitto, con gli eserciti alleati, le forze nazifasciste. Nacque la resistenza, dopo l’8 settembre 1943 (armistizio con gli anglo-alleati) fino alla liberazione del 25 aprile 1945, che vide la vittoria degli alleati e dei partigiani, ripristinando la democrazia.

Scalfari non partecipò attivamente alla Resistenza, impegnato a liberarsi dai suoi rapporti col passato regime: ma verosimilmente fu preso anche lui da quel sentimento che animò molti italiani in quei mesi, efficacemente descritto da Max Salvadori, storico e combattente della Resistenza: "Nel fango fascista erano affondati i valori che avevano fatto dei migliori fra gli europei l’avanguardia del progresso: la Resistenza fu la volontà di redimersi dal fascismo, di liberarsi dal fango, di prendere la marcia verso un avvenire di libertà e di giustizia".

Verso Benedetto Croce

Dal profilo ideologico-politico, tre erano le scelte che si presentavano: la Democrazia cristiana (Dc), il Partito comunista, e la soluzione laica, la sola che si rifaceva al periodo pre-fascista, dominato dai partiti che avevano fatto il Risorgimento, di diverse tendenze liberali. Quest’ultima scelta, quella cui si avvicinò Scalfari, era ispirata sostanzialmente da due correnti: quella che faceva capo, in linea di massima, al "socialismo liberale" titolo del libro di Carlo Rosselli, uscito nel 1928, e auspicava un amalgama dei due ideali che, fino allora, erano interpretati come incompatibili. Ma era pure attiva l’influenza di colui che era stato il principale esponente del pensiero liberale già dall’inizio del XX secolo nonché il massimo esponente antifascista, Benedetto Croce. Il quale aveva presieduto, nel 1925, alla stesura del "Manifesto degli intellettuali antifascisti" in contrapposizione a quello degli intellettuali fascisti. Croce, accanto alle sue opere filosofiche e di critica letteraria, aveva scritto alcuni libri di storia ispirati alla libertà e alla liberazione dal despota: nonostante la censura fascista e la difficoltà di procurarseli, erano stati attentamente letti soprattutto dalle nuove generazioni, e avevano formato una solida, ancorché numericamente esigua, opinione antiregime. Era il "sistema crociano": ci fu chi scrisse che in quegli anni non si poteva non essere crociani se si era antifascisti.

È ovvio che la terza via, quella laica, era nettamente minoritaria rispetto alle altre, e ciò si verificò anche negli anni successivi, dalle elezioni del 1948 con l’affermazione democristiana, a tutti gli anni 50, con governi sempre rigorosamente dello stesso colore. Una netta supremazia politica, non compensata da una certa predominanza culturale del Partito comunista italiano (Pci). Del resto, questa situazione era inevitabile: Dc e Pci godevano di una forza, elettorale e politica, determinata da due fattori: interno ed esterno. Per la Dc, internamente una potente macchina elettorale, in buona parte appoggiata sulle parrocchie; esternamente, il Vaticano, dotato di strumenti di persuasione che oltrepassavano il mondo cattolico. Quanto al Pci, la sua organizzazione interna e la fedeltà dei propri aderenti garantiva elezioni di tutto rispetto; esternamente poi il suo legame con l’Urss lo rafforzava concretamente.

Libertà: un valore assoluto

La vocazione minoritaria della componente laica era quindi facilmente spiegabile. Dal 1945 fino alle elezioni del 1948, il suo partito più significativo fu il Partito d’Azione (PdA). Fondato nel giugno 1942, dopo una gestazione fra più tendenze politiche e ideologiche: la più influente fu quella di Giustizia e Libertà, fondata dai Rosselli nel 1929, e unitasi dopo il 25 luglio agli esponenti liberal-democratici, progressisti e radicali, liberal-socialisti e federalisti. Il leader del nuovo partito fu identificato in Ferruccio Parri, anche per il ruolo di primissimo piano da lui occupato nella Resistenza, quale vicepresidente del Corpo Volontari della Libertà, essenziale organo militare e anche politico.

Nel contesto del PdA va sottolineato un paradosso. Infatti la maggior parte dei componenti del partito, quasi tutti esponenti dei diversi settori della cultura italiana, si dichiaravano allievi, o quanto meno estimatori, del filosofo napoletano. Invece quest’ultimo era fieramente avverso, soprattutto dal profilo ideologico, al PdA. La ragione va cercata sostanzialmente nella sua concezione della libertà, la quale andava considerata come un valore assoluto, che doveva valere per tutti i partiti (e ciò anche come reazione alla dittatura fascista), tant’è vero che inizialmente era restio al nome di Partito liberale, il partito che poi presiedette. Alla formazione di Parri rimproverava il duplice richiamo, al liberalismo e al socialismo: secondo lui un "ibridismo programmatico". Croce non ammetteva una "professione di ardente fede liberale" unita all’"effettuazione di una totale riforma sociale", che secondo lui non sarebbe potuta avvenire con metodo liberale. Una visione non priva di contraddizioni, poiché Croce era favorevole come liberale all’adozione di misure di carattere sociale: una sorta di "riformismo crociano", che specie nei primi anni 40, propugnò una maggiore giustizia sociale. Peraltro, in un’ottica non dissimile, Croce era già stato ostile al rosselliano Giustizia e Libertà divenuto poi un canone del PdA, in quanto, "quale unico principio della vita morale, la libertà contiene in sé la giustizia, suo inseparabile aspetto".

Il PdA ebbe un ruolo importante nella Resistenza: sia per numero di partigiani (bande gialle) sia per l’attività militare fu secondo solo al Pci, con le sue formazioni garibaldine. Per alcuni mesi, nel 1945 Ferruccio Parri presiedette un governo di coalizione tra le principali forze politiche: le polemiche tra Dc e Pci e la debolezza numerica del PdA ne causarono la fine. Che fu pure il destino del partito stesso: indebolito dallo scarso seguito elettorale nelle prime consultazioni postbelliche, nonché da forti divergenze interne (fra l’ala filo-socialista e quella filo-liberale), al Congresso del febbraio 1946 parecchie correnti abbandonarono il partito (per aderire al partito liberale, a quello repubblicano o a formazioni minori), e l’anno successivo anche l’ala filo-socialista ne decretò la fine, confluendo nel Partito socialista italiano (Psi).

Rimase comunque, negli ex azionisti, lo spirito che aveva animato il PdA, e restarono ben vive le idee che l’avevano caratterizzato: in primo luogo lo spirito critico, sostegno indispensabile per una vera democrazia. Queste convinzioni non scomparvero dalla vita politica, ma furono espresse dai singoli esponenti nei rispettivi partiti dando vita, al di là della lotta politica che interessava soprattutto le due maggiori forze, a quella "Italia di minoranza" che pure ebbe un influsso notevole nella vita sociale e culturale del Paese. Organo di questa presenza fu il settimanale ‘Il Mondo’, fondato nel 1949, con Mario Pannunzio per lunghi anni influente direttore; nel 1955 si aggiunse l’Espresso, in forma più divulgativa, con Arrigo Benedetti direttore.

Stella polare

Il gruppo "liberal" esplicò la sua influenza per parecchi anni, almeno fino ai primi anni 60, quando iniziò il centro-sinistra (che ebbe poi esiti assai deludenti per gli amici del Mondo). Benedetto Croce, morto nel 1952, non fece parte attiva in questo gremio, ma rappresentò una sorta di "stella polare" per tutto il periodo di attività del gruppo del Mondo. E ciò non tanto per la sua filosofia, un idealismo hegeliano da lui riveduto e corretto, assai più in auge nei decenni precedenti, ma per l’autorità indiscussa, nel campo della cultura, da lui acquisita nella lotta contro il fascismo.

Scalfari ebbe contatti quasi quotidiani con i collaboratori del Mondo: poté così partecipare alle loro discussioni e diventare a sua volta un difensore delle loro idee e delle concezioni dei liberalsocialisti. I protagonisti di questi incontri erano non solo giornalisti, ma anche scrittori, artisti, politici, banchieri ed economisti.

Si può continuare a definire queste personalità dei crociani, anche se il riferimento al pensatore napoletano non era più diretto, né incondizionato. Il mutamento delle circostanze politiche e culturali rispetto agli anni del dominio culturale crociano era stato tale che non poche opinioni potevano essere considerate diverse, o quanto meno frutto di una realtà nuova. Del resto, Scalfari distingue due filoni: quello crociano e quello salveminiano (da Gaetano Salvemini, illustre storico e grande antifascista, esiliato negli Stati Uniti durante gli anni bui).

Una divergenza che merita di essere approfondita, come pure un altro aspetto della cultura italiana di quell’epoca: la presenza di una filosofia marxista, essa pure non priva di componenti idealistiche, specie in Gramsci.

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