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‘Sette, sono i magnifici’

Dai boschi del Malcantone alle sale milanesi, da Kurosawa a Sturges, da Venezia al cinema Eden di Carpi, storie di film che portano altri film

‘Seven Samurai’ (1954), di Akira Kurosawa
(Keystone)
19 agosto 2022
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Nell’ottobre del 2020, l’artista Natasha Melis sviluppa una performance in un bosco del Malcantone per l’Associazione Aranno LandArt, tessendo intorno a tre alberi un filo tinto in cotone con colori vegetali. Lo fa con leggerezza, perché si tratta di un dialogo a cui l’intervento umano chiede la grazia di partecipare al gioco delle ombre e della luce. L’opera crea un dispositivo che cattura via via i dettagli che prima sfuggivano, è un’immagine antica che arriva, improvvisa, a noi. La scena mette in essere quella visione; la vita, la realtà, la forza del mondo. Lo schermo senza alcuna immagine è l’immagine stessa, pura, nuda, salvifica, accade quando seduti e immersi nel buio di una sala ritroviamo uno sguardo che va fino ai suoni dell’universo. Lo schermo è uno specchio, è l’estasi, sentirsi fuori e dentro al pari di quando guardiamo la finestra di casa passeggiando nella strada accanto, sapendo di essere là nello stesso istante che guardiamo. Irraggiungibili, forse.

I magnifici sette

Ero entrato nel cinema senza sapere dove fossi. Vicino a casa nostra, a Milano, ne eravamo circondati. Lo schermo, allo stesso modo di chiudere gli occhi, è sentire una pelle accanto. Accompagnati dalla colonna sonora di Elmer Bernstein, l’epica dei sette pistoleri che difendono i campesinos di un villaggio messicano, restava dentro me in una storia più grande di me. Li rivedo poi sotto altre vesti in un film capolavoro uscito sei anni prima, ‘I Sette Samurai’, del 1954.

È passato un po’ di tempo e ho capito che lo schermo, il découpage, ritagliare in parti, sono quello che Luis Buñuel ha detto essere il "modo, il più semplice, il più complicato, di riprodursi, di creare". L’omaggio di John Sturges a Kurosawa è entrato nella storia del cinema; la frontiera americana, il Giappone rurale, tre secoli di distanza. "Può darsi che la verità sia la vita stessa", scrive Kafka. Nei film di Kurosawa e Sturges predomina il senso di solitudine dei protagonisti, l’amicizia virile, la lotta contro l’ingiustizia; è il terreno dell’epica, il presente del tempo al di fuori dal tempo. Una sfida.

Festival

Da molti anni il senso e la forma d’amicizia che mi lega a Dario D’Incerti passa, tra le altre cose, dal cinema. Dario è nato e vive a Carpi con la moglie Chiara e il figlio Davide. Nel corso del suo iter professionale ha realizzato diverse produzioni audiovisive, soprattutto in ambito manageriale e della formazione. Accanto a questo, un significativo lavoro documentaristico di carattere autobiografico dedicato a personaggi della cultura italiana. Fra qualche giorno tornerà a Venezia, uno dei Festival che dopo Locarno segna l’intensa attività estiva in campo cinematografico.

Il primo viaggio? «Sono andato alla Mostra del cinema per la prima volta nel 1979, da solo, partendo prestissimo in treno e tornando a notte fonda. Ricordo vagamente quali film riuscii a vedere, in pratica fu il primo assaggio dell’atmosfera del festival. Ricordo però la stroncatura del film ‘La Luna’, di Bernardo Bertolucci. Era già una star internazionale, ma ciò non gli impedì di ricevere critiche feroci, una crisi da cui si riprese quasi dieci anni dopo con ‘L’ultimo imperatore’, ricevendo l’Oscar». Com’era organizzato? «In pratica in due sole sale, quella del palazzo del cinema e l’arena all’aperto. Questa era adibita alle proiezioni popolari, si poteva andare anche in calzoncini e infradito, mentre in sala solo con abiti adeguati, soprattutto per la proiezione di gala. Frequentavo l’arena, ma ricordo che un giorno sono riuscito a entrare in sala grande per la proiezione di ‘Ratataplan’, film d’esordio di Maurizio Nichetti che ebbe un trionfo clamoroso e imprevisto».

Applausi, fischi. «Prima del film si assiste alla presentazione del cast, con applausi al regista, agli attori, alle maestranze tutte. Applausi preventivi, sulla fiducia, che poi alla fine della proiezione possono trasformarsi in fischi. A volte capita di vedere che il cast beato dagli applausi se la svigna alla chetichella». Emozioni un po’ contrastanti. «Il pubblico del festival è in genere fatto da addetti ai lavori, giornalisti o critici, anche da chi si pensa esperto di cinema. Applaudire, fischiare, ricorda i loggionisti della scala». Un esempio? «Nel 1994, il film ‘Vive l’amour’ di Tsai Ming-liang, venne coperto da urla, insulti alla stampa, salvo poi vincere il Leone d’oro in coabitazione con ‘Prima della pioggia’, di Milčo Mančevski». Il fenomeno continua? «L’atteggiamento è cambiato; in genere, di fronte a opere di lunghezza eccessiva e difficile fruizione si assiste allo svuotamento progressivo della sala, una vera e propria ‘sinfonia degli addii’. Ciò è anche dovuto al fatto che le proiezioni negli anni si sono moltiplicate, programmate spesso in contemporanea». Scelte difficili. «Se nei primi quindici, venti minuti, comincia a farsi strada l’idea che altrove si sta proiettando qualcosa di meglio, lo spettatore non esita a cambiare proposta».

Hai avuto una sala d’essai. Il Cinema ‘Eden’, a Carpi. «In realtà, mi è stata affidata una sala commerciale che faceva anche programmazione d’essai con dei mini cicli tra autunno e primavera. Il mercoledì sera era dedicato al cineforum». Il cinema? «Un cinema parrocchiale all’interno di un oratorio, una realtà datata anni 50, forse il periodo più felice per le sale cinematografiche, non ancora attaccate dal monopolio televisivo». Ti sei mosso in autonomia? «Le logiche distributive che regnavano e regnano nel mondo dell’esercizio cinematografico sono poco legate a criteri di qualità. Per una piccola sala come la mia il potere negoziale era limitato, per non dire obbligato. Il Cinema Eden era un minuscolo ingranaggio di un meccanismo molto più grande le cui leve erano in mano a un gruppo ristretto di persone». Riuscivi comunque a proporre il tuo cinema? «Facendo parte del circuito della ‘Federazione italiana cinema d’essai’, potevamo contare su una rete distributiva formalmente più votata al cinema di qualità, vicina alle mie inclinazioni. Con l’arrivo di altre offerte cinematografiche di tipo domestico, da ‘Sky’ alle famigerate piattaforme, i numeri del pubblico sono calati inesorabilmente, per cui sono uscito di scena».

Ogni tanto, Dario D’Incerti viene fermato per strada, vecchi spettatori gli manifestano qualche nostalgia per i cineforum. «È un modo per segnalare l’appartenenza a una comunità ideale di appassionati di cinema che dovrebbe essere oggetto di salvaguardia». Eden è anche ‘La valle dell’Eden’, film del 1955, diretto da Elia Kazan. I film portano sempre ad altri film e non c’è mai limite per vederli.


Dario D’Incerti davanti al Cinema Eden di Carpi

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