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A proposito di Robert Walser

Dalle parole ‘walseriane’ Dino Buzzati lo spunto per raccontare il poeta e scrittore svizzero, che fu sempre matto o non lo fu mai

Robert Walser, 1878-1956
(Wikipedia)

"La segretaria a cui dettavo i miei poemi si è sposata e ha due figli, quando la incontro mi saluta, ecco che cos’è rimasto dell’amore. La mia macchina da scrivere l’ho prestata a un amico, addio addio. Che simpatico ragazzo (…) da cinque anni è lontano, avremo mai più sue notizie? La mia stilografica si è rotta. L’ho lasciata cadere per sbaglio, il pennino d’oro si è fessurato. A uno di quei banchetti specializzati che posteggiano sulle piazze mi hanno detto che non c’è niente da fare…". Così girovagava Dino Buzzati di strumento in strumento di scrittura, con la sintassi svagata di uno che potrebbe scrivere in trenta stili diversi le stesse righe ma questo è l’unico che gli importa. Vedremo come continua il resoconto ma ora passiamo a Robert Walser. Il quale, o fu sempre matto o non lo fu mai. Si dice che passò gli ultimi 28 anni della sua vita in cliniche psichiatriche, a Waldau prima, poi a Herisau, ed è vero ma l’affermazione richiede alcune correzioni: fu per sua scelta, sembra, e non volle più lasciarla ancora per sua scelta. Poteva uscirne liberamente e aggirarsi nei dintorni, andare nei paesi vicini dal gran camminatore che era. Gli fu fatta un’unica diagnosi, all’ingresso, poi più niente. Ma tanto non voleva uscire.

Detto questo, Walser nella sua clinica non smise di scrivere ma elesse la matita a unico strumento di scrittura. Quanto scrisse dal 1924 al ’32 entra in tre volumi per un totale di un migliaio di pagine, fu scritto su fogli sciolti, pagine di calendario, fatture, biglietti da visita, inviti… 526 fogli ricoperti di una grafia alta due o tre millimmetri in principio, poi sempre più piccola fino al millimetro. Da qui il nome di ‘microgrammi’.

Scrive Walser in una lettera: "Per l’autore di queste righe ci fu un momento in cui si sentì colto da una spaventosa avversione per la penna, un momento in cui ne fu nauseato in modo indescrivibile, in cui appena cominciava ad usarla diventava stupido di colpo: per liberarsi di quel tedio della penna iniziò a schizzare, sbozzare, scarabocchiare".

La conversione dalla penna alla matita, anche se non così definitiva, avviene prima dell’ingresso in clinica. Da quel momento cominciò a scrivere ‘con’ la matita nel senso di ‘insieme’ alla matita. Sotto la sua dettatura, dice altrove, reimparo a scrivere come un bambino.

La vita di Robert Walser è disseminata di segnali della volontà di non lasciar traccia. Vera propensione a sparire. Cercava di proposito lavori servili. Mestieri in cui dovevi eseguire, obbedire a qualcosa che fosse di esecuzione non troppo impegnativa, e in cui l’iniziativa nasceva fuori di te. Uno ti chiede una cosa e tu la fai. Impiegato, copista. Non soltanto quello dei microgrammi, il suo stile è stato sempre di una leggerezza, mutevolezza, vaporosità che difficilmente può tollerare in quelle dosi, senza vacillare, una mente sana. La mente di Walser poteva entrare e uscire da tanta incorporeità restando al di qua della follia. Sebbene non di molto. Righe tanto ondulanti e tanto aeree venivano vergate senza un ripensamento. Quattro romanzi e una quantità di raccolte di racconti, ritratti, articoli, brevi ‘saggi’, scritti quasi senza una correzione come poi i microgrammi di Herisau. L’uso della matita non era dunque per poter, nel caso, cancellare, eppure sapeva che volendo avrebbe potuto far sparire pure quei tratti abbozzati. Il segno della matita resta, ma lascia una traccia meno visibile. Il desiderio di sparire, mettersi in un angolo a guardare. La gioia dell’esserci sparendo. E il giorno che sparì per davvero fu in una delle sue passeggiate, camminando nella neve. Lo scrittore da tanti anni solo a matita traccia un cammino nella neve, un passo dopo l’altro, non deviando per non affondare, ma sempre guardando fuori e dentro di sé. Procede secondo quella linea e quella via segnata, nella libertà del paesaggio intorno, bianco di neve, e nella libertà di dentro.

Dino Buzzati, nel raccontino che avevamo cominciato, è alquanto walseriano nel procedere disarticolato, fluido e singhiozzante insieme: "E la antica mia penna che adoperavo da bambino – ci deve essere ancora – chi è più capace di trovarla? Avevo anche, per scuola, un piccolo calamaio tascabile, vi ricordate? Ma miliardi di uomini nel frattempo sono morti e nati, e con essi deve essere stato sepolto. Perciò scrivo con la matita. Un mozzicone, veramente, trovato in una vecchia scatola, per caso. Gli ho fatto la punta, amici miei, e sulla poca carta bianca che rimane stasera io scrivo".


Keystone
A Zurigo

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