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Ricordando Miguel Hernández, ottant’anni dopo

Figlio di un pastore, e pastore lui stesso fino ai vent’anni, una vita tutta in balìa della poesia. Morì nel 1942 a 32 anni nel carcere di Alicante

Anno 1939, foto dalla prigionia
(Wikipedia)

Ottant’anni dalla morte di un poeta, Miguel Hernández, che ha lottato per la libertà del suo Paese, non solo nei versi.

Ogni generazione dovrebbe riscrivere le proprie antologie. Il nostro giudizio sui poeti galleggia sull’inerzia. Le reputazioni stabilite restano inattaccabili. Alcune di quelle reputazioni, indagate con un po’ di attenzione mostrerebbero una serie di crepe da far crollare quasi tutto con una spallata. E anche le più sicure hanno bisogno di una costante messa a punto. Ma chi si permette di toccare Neruda o Jiménez o Garcia Lorca? Ogni generazione ha questo diritto e questa responsabilità: rifare le antologie e ritradurre tutto. L’inerzia colpisce soprattutto i poeti valutati dai contemporanei di seconda fila, il cui ricordo col tempo sbiadisce sempre di più. Anche se dell’oblio il poeta di cui sto per parlare scriveva in questi termini: «Sorridere con l’allegria triste dell’oblio, / aspettare, non stancarsi di aspettar l’allegria. / Sorridiamo dorando la luce di ogni giorno / nella triste e allegra vanità di esser vivo».

Senza un solo calcolo

Moriva a 32 anni, il 28 marzo del 1942, Miguel Hernández, nel carcere di Alicante. La vita di Hernández, figlio di un pastore e pastore lui stesso fino a vent’anni, fu tutta in balìa della poesia; della poesia come lui la intendeva, triplice ferita: «Arrivò con tre ferite: / dell’amore, / della morte, / della vita…». Una vita senza un solo calcolo. Vissuto a cavallo di due generazioni poetiche, quella del ’27 e quella del ’36, non appartenne né all’una né all’altra, e portò avanti la sua battaglia da poeta come da uomo sempre solo. Si arruolò nelle milizie popolari alla scoppio della guerra civile e la guerra lo travolse. Vita in preda non solo della poesia ma, nella sua generosità, dei poeti. Scrisse una pagina introduttiva a due delle sue raccolte ed erano due lettere a poeti, Neruda e Aleixandre. Alcuni di quei poeti provarono a dargli dopo, negli anni del carcere, l’aiuto che non avevano saputo dargli prima, né a Madrid né a Siviglia né a Cadice ad evitare la prigionia. Cercò di fuggire in Portogallo il cui governo era amico di quello da cui fuggiva. Fu consegnato appena passata la frontiera alla città spagnola più vicina. A partire da allora, la sequela delle carceri: Huelva, Siviglia, Madrid. Rimesso in libertà, fu ripreso dodici giorni dopo con nuove accuse più pesanti: Orihuela, Madrid, Palencia, Ocaña, Alicante. Condannato a morte, altri amici poeti e intellettuali, più vicini a chi contava, gli ottennero la commutazione in trent’anni. Con il corpo già minato da polmonite, bronchite e tifo, contrae la tubercolosi e muore in quel giorno di marzo del 1942.

Trentadue anni di vita, tre dei quali prigioniero nelle carceri franchiste. Cinque raccolte di poesie in dieci anni (Perito en lunas, El rayo que no cesa, Viento del pueblo, El hombre acecha, Cancionero y romancero de ausencias). Una poesia come un puro impeto, slancio ininterrotto nel più profondo di sé per spingersi con la maggior forza fuori, verso la parte della società più indifesa ed esposta, rendendosi indifeso ed esposto da ogni lato, come dimostra ogni atto della la sua vita. Educatosi sui grandi classici spagnoli della poesia barocca – Góngora, Quevedo, Garcilaso –, riempì quelle forme colte, elaborate, simmetriche, con la propria passione umana e sociale. E i suoi versi toccarono uno dei loro apici nella poesia d’amore. Nelle poesie per Josefina Manresa, conosciuta quando aveva ventuno anni e che sposerà a ventisette, la poesia d’amore in lingua spagnola di ogni secolo tocca uno dei suoi vertici: «Un sorriso si alza sopra l’abisso e cresce/ come un abisso tremulo, col suo battito d’ali. / Un sorriso, calorosamente, alza il volo (…) / Sfidi ogni cosa, amore: ogni cosa tu scali. / Sorridendo lasciasti la tua terra e il tuo cielo.»

La vita e la guerra lo strapparono da quanto più amava, la moglie e i due figli, il primo dei quali morto a dieci mesi. Ma era un rischio che conosceva e non vi rinunciò anche sapendo il prezzo che poteva pagare. I versi che andava scrivendo in carcere diventarono la sola maniera di riavvicinarsi a loro, in un gioco continuo di assenza-presenza: «Più si guardavano, più si ritrovavano, e più profondamente / si vedevano, lontani, fusi in un solo essere».

Per certi artisti la cui vita rischia di appannare e compromettere l’opera, ci affanniamo a distinguere e attenuare, per salvare l’opera. Per altri, come Miguel Hernández, non occorrono distinzioni. La poesia è il sigillo della vita. E la vita della poesia.

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