Anche i capannoni senza grazia possono ospitare delle vite. Nel suo ultimo libro, Annie Ernaux ne racconta una.
Supermercato Carrefour di Annecy, inizio anni Settanta. In una sera d’inverno, nel reparto alcolici, due giovani sghignazzano quando un terzo dice a una ragazza: "Ti dico che non può essere mio". Lei non ride, rossa in volto a quel pubblico diniego di paternità senza appello.
Nessun manuale o saggio di sociologia dei non luoghi avrebbe registrato una scena simile. Per fortuna nella stessa corsia stava facendo la spesa anche una scrittrice, che quella storia l’ha intercettata e fissata per sempre.
È questa la scintilla dalla quale Annie Ernaux è partita, anzitutto per rendersi conto che anche dei capannoni senza grazia possono ospitare delle vite e poi, dopo quarant’anni, per registrare, in una sorta di diario della durata di un anno (dal novembre del 2012 all’ottobre del 2013) quanto osservato all’Auchan di Cergy. Ora questo libretto esiste anche in italiano (l’originale è del 2014), grazie alla come sempre inappuntabile traduzione di Lorenzo Flabbi per L’Orma editore.
A me pare che la forza dell’opera risieda in particolare nell’asciuttezza stilistica con cui l’autrice indaga la permeabilità tra osservazioni di ordine sociologico e momenti di valore più strettamente letterario, e questo senza la necessità di tirare in ballo l’ormai stucchevole etichetta di testo ibrido, che, volendo descrivere un po’ tutto, finisce col non dire più nulla.
Così, Ernaux annota come l’ipermercato sia uno spazio sostanzialmente isolato dall’esterno (quando ci muoviamo tra i reparti, non sappiamo nemmeno se fuori sia scoppiato un temporale o se sia calata la sera), senza che questo implichi una frattura definitiva col tempo del Mondo: semmai, si crea una nuova ciclicità, dettata dalla Merce e dal suo valore (del resto, che cosa vende un ipermercato, se non tempo mercificato?). E dunque ecco lo stesso giocattolo offerto a metà prezzo subito dopo le festività natalizie o gli scaffali riempirsi di astucci e matite (poi saranno scontati anche quelli) poco prima dell’inizio dell’anno scolastico. Bizzarro, inoltre, che nessuno dei clienti scatti fotografie (solo perché è vietato?), quando non facciamo altro che immortalare (e condividere) ogni istante della nostra esistenza. Osservazioni, si dirà, nemmeno particolarmente complesse, che acquisiscono tuttavia valore proprio per la pacata semplicità con cui sono esposte e, soprattutto, perché alternate a momenti che solo una scrittrice potrebbe cogliere o a questioni che solo una scrittrice potrebbe sollevare: vale per quei due giovani che tentennano al reparto formaggi, perché "fare la spesa in due per la prima volta segna l’inizio di una vita in comune, e proporre a un’altra persona di andare insieme al supermercato non ha niente a che vedere con un invito al cinema o a bere un bicchiere". E vale per la capacità dell’autrice di segmentare la realtà (scegliendone i frammenti più significativi nel flusso magmatico degli eventi) e di riflettere sul proprio ruolo: come caratterizzare un’africana quando se ne parla? Basta scrivere "donna" o bisogna scrivere "donna nera"? Di quanto viene spostata la rappresentazione della scena grazie a questa precisazione?
Mi sembrano particolarmente riuscite le pagine che si muovono proprio sul confine tra prospettiva sociologica e sguardo letterario, idealmente introdotte dalla riflessione sull’assenza di un vero interesse per l’ipermercato da parte degli scrittori, almeno fino a qualche decennio fa. Forse perché, ipotizza Ernaux, si tratta di uno spazio legato alla sussistenza, quindi frequentato in larga parte da donne, quindi invisibile (nella vita e, di riflesso, nella letteratura); o forse perché la maggior parte degli scrittori e delle scrittrici era per la maggior parte di origine borghese e viveva a Parigi, dove i supermercati non esistevano (difficile immaginare Alain Robbe-Grillet o Françoise Sagan intenti a spingere un carrello).
Ora, è senz’altro vero che le casse automatiche stanno rapidamente sostituendo le cassiere, ma solo la letteratura sa intercettare il fastidio che il cliente sposta da una cassiera lenta al cliente lento che lo precede. Così come è necessario indagare i meccanismi per cui l’orario della spesa è un fattore di segregazione tra le tipologie di popolazioni che abitano l’ipermercato (la mattina presto per le coppie di pensionati, le donne sole a metà pomeriggio, le donne velate, sempre accompagnate da un uomo, solo dopo le 20), ma solo una scrittrice fissa icasticamente l’incomunicabilità tra questi mondi attraverso l’immagine delle scale mobili che portano flussi di persone a incrociare per un istante i loro sguardi mentre scorrono in direzioni opposte. Ed è senz’altro degna di nota anche la stridente differenza tra l’opulenza degli scaffali e la freddezza del soffitto, coi suoi cavi e i suoi tubi, ma forse è ancor più importante indagare la paura che proviamo nel guardare verso l’alto mentre ci muoviamo tra le corsie, il timore che qualcuno ci consideri sospetti, alla ricerca delle telecamere della videosorveglianza. Perché in quel momento non siamo più dei consumatori, ma diventiamo degli individui.