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Quando il cinema racconta la storia e toglie le speranze

Solo a Cannes può succedere che un film, con la franchezza che esiste solo nel grande Cinema, chiuda tragici episodi di Storia o li apra

(Keystone)
23 maggio 2022
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Solo a Cannes può succedere che un film, con la franchezza che esiste solo nel grande Cinema, chiuda tragici episodi di Storia o li apra. Nel primo caso, quello dello straordinario film "Walad Min Al Janna" (Boy From Heaven) scritto e diretto da Tarik Saleh dove si comprende tragicamente come il caso italiano di Giulio Regeni, sia praticamente irrisolvibile con una qualsiasi giustizia, impermeabile com’è il sistema politico-militare egiziano.

Variety accusa Tarik Saleh di essere troppo tenero con il regime egiziano, ma Tarik Saleh ha dovuto fuggire per vivere, e non ha ancora il diritto di affondare stilettate sul governo egiziano senza aspettarsi dure risposte. Lo stesso confeziona un film onorevole pieno di umana dignità e di coraggiosa capacità di sfida. Un film in cui denuncia la violenza prima della corruzione come irrefrenabile anima umana. È la concezione dell’uomo che si esalta in questo film, ma non dello stesso uomo perché chiara è la differenza tra chi ha il potere politico, religioso, economico, e chi ha, forse, solo il suo lavoro, condito con una speranza che sempre viene delusa. Protagonista del film è il giovane Adam (un bravissimo Tawfeek Barhom), figlio di un pescatore che è stato accettato all’Università Al-Azhar del Cairo, una delle migliori istituzioni mondiali per gli studiosi dell’Islam sunnita, e uno dei centri di potere, capace di indottrinare i nuovi quadri politici e religiosi del Cairo. Proprio il giorno in cui iniziano le lezioni, il Grande Imam, rettore dell’Università, muore inaspettatamente, lasciando lo storico istituto senza timone e senza un capo. E Adam si ritrova presto invischiato nel gioco di potere e negli intrighi in atto tra l’élite religiosa e politica egiziana. Prima viene contattato da un altro giovane studente, informatore di Ibrahim (un intenso Saleh Fares Fares) dirigente dei servizi di Sicurezza dallo Stato, responsabile della situazione dell’università. L’informatore viene violentemente ucciso sotto gli occhi di Adam, che subito viene contattato da Ibrahim, per scoprire chi ha ucciso il giovane, che era anche assistente di un Imam, ora favorito alla successione del rettore. Naturalmente lo stato ha un suo favorito e Adam si trova proprio per la sua innocente integrità morale, a essere colui che condanna il favorito lasciando strada al servitore dello Stato… Non si racconta come finisce un film che difficilmente vedremo sui nostri schermi.

Su livelli politici e sociali meno forti si muove "Frère Et Soeur" di Arnaud Desplechin, un autore attento più alle sfumature che ai grandi temi, anche qui lo conferma, in quello che non è il suo miglior film, ma un’opera egregia capace di ben figurare a Cannes. E, forse, la colpa principale di Desplechin è l’aver scelto come protagonista la sua amata Marion Cotillard, sedici anni dopo gli orrori dei Vuillard in "A Christmas Tale", e ancora con Melvil Poupaud per questo che è il settimo film del regista presentato qui in Concorso. Il fatto è che Marion Cotillard è troppo brava e recita magnificamente riguardandosi continuamente a uno specchio, ma dimentica di una collaborazione con gli altri e le altre del cast, e il regista la lascia fare.

Ma a Cannes il cinema si macina continuamente come farina per fare nuovi pani, ed ecco allora che sempre in Concorso abbiamo visto "Triangle of Sadness" scritto e diretto dallo svedese Ruben Östlund che qui ha già vinto la Palma più importante con "The Square". Ora con un cast internazionale che comprende, tra gli altri, Harris Dickinson, Charlbi Dean e Woody Harrelson, confeziona una dark comedy centrata su una "fashion model celebrity" coppia (Dickinson e Dean) che viene invitata in una crociera di lusso per ultraricchi. È questa la base di questa ultima satira di un regista che spesso sembra uno strizzacervelli. Il film si apre con una intrattenibile commedia tra i partecipanti a una selezione pubblicitaria, il gioco è fare la faccia allegra per un potente marchio popolare e la faccia più seria per l’alta moda.

Scopriamo che la coppia di modelli influencer non ha molto denaro in tasca e che la crociera serve proprio per rimpinguare il loro conto in banca. Risulta subito chiaro che più fissi la bellezza più ti appare il brutto. "Triangle of Sadness", prende il nome da un termine del mondo della moda per la piega a V profonda che appare tra le sopracciglia con lo stress o l’età. Ed è una bella traduzione di quello che a questa compagnia di goduriosi boriosi succede. Tutto si completa con un naufragio in un’isola che sembra disabitata, in cui a guidare i pochi superstiti si ritrova la serva adibita alle pulizie delle toilettes, l’unica che sa pescare, accendere un fuoco e cucinare. Forte del suo potere in cambio del cibo si porta il belloccio con sé a fare l’amore con disappunto della compagna collega, che resta silenziosa per mangiare. Tutto in un gioco di strategia buñueliana, pensiamo a "Il fascino discreto della borghesia", di cui Östlund è oggi l’unico vero erede. Si discute sul capitalismo e su Karl Marx, ma anche di Rolex e del mondo che il potere poggiato sull’argilla degli influencer ha cambiato.

Proprio sabato l’editoriale de "Le film français" scriveva di come Instagram e gli altri media diffondano in maniera incalcolabile l’immagine e i film del Festival di Cannes. Östlund ha ben chiaro questo e nel film mette in ridicolo famosi influencer che, incapaci di farsi un uovo all’occhio di bue, dettano manuali di cucina. La commedia è da ricordare, perché ti fa ridere, ma ti fa anche pensare.

Ancora in Concorso "R.M.N." del già vincitore della Palma d’Oro Cristian Mungiu, il titolo è l’acronimo rumeno di una risonanza magnetica, che uno dei personaggi riceve nel film, il regista spiega "… che è anche termine appropriato per un film che fornisce una scansione cerebrale su vasta scala a una nazione afflitta da molteplici conflitti di natura razziale, sociale, politica, nazionale, ecologica ed emotiva". Siamo nella Transilvania rurale la vigilia di Natale, qui arriva Matthias (Marin Grigore), lavoratore di un mattatoio in Germania che torna, dopo essere stato licenziato per aver picchiato un capo, a Recia, suo villaggio natale. Qui lo aspettano la moglie e il figlio di otto anni che non parla, e anche la sua vecchia fiamma, Csilla (Judith State), un violoncellista e amante della musica che gestisce la locale fabbrica del pane. Succede che con lui alla fabbrica arrivino nuovi operai dallo Sri Lanka e che gli abitanti del luogo rinuncino al pane fatto con le mani degli stranieri, anzi che chiedano al Sindaco, con l’aiuto del prete cattolico del paese, di espellere gli stranieri. Csilla si pone dalla parte degli immigrati, mentre Matthias si trova dall’altra, sicuro come uomo di poter comandare anche l’amante, senza accorgersi che intorno a lui il mondo cambia: suo padre si suicida, sua moglie torna a casa dei suoi genitori con il figlio, lui imbraccia il fucile pronto a uccidere. Il regista mette tutte queste tensioni sotto un microscopio, mostra un mondo impazzito di fronte alle migrazioni, un mondo che non comprende che posti di lavoro restano vuoti per colpa di tutti quelli che sono emigrati in Germania o altri paesi, lasciando vuota la loro città in quel cortocircuito che è il lavoro poco pagato. "R.M.N." è un’esplorazione affascinante e umana dei molti problemi affrontati ormai da tutti i Paesi europei. E in questo Mungiu accusa anche l’Europa incapace di un progetto integrato nel sistema lavoro, è ridicolo vedere la gente di un Paese partire per essere costretti a coprire quei posti da altri. Civilmente ed economicamente sarebbe meglio una crescita dei salari. Ma ognuno deve arrangiarsi, sottolinea amaramente Mungiu. Questo è cinema.

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