Culture

Chiamarsi fuori: ‘A una voce’ di Sabina Zanini

Un romanzo d’esordio stupefacente su un bancario un po’ Bartleby, un po’ Fantozzi, ma con dentro un giardino incantato. E poi c’è Paganini

(Ti-Press)
21 maggio 2022
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Un colletto bianco apre gli occhi "su un mattino appena abbozzato" e su quel che lo aspetta. Un po’ Bartleby, un po’ Giobbe, un po’ anche Fantozzi e Gregor Samsa. L’anonimo e solitario bancario – o bancaria, vai a sapere – racconta la sua giornata-tipo come se la osservasse da dietro a un vetro, quasi non facesse parte dell’acquario che descrive e nel quale deve pur sempre nuotare, peraltro a due dita dal fondale. Ne sgorga un paradossale monologo binario, in cui al ‘fuori’ della routine, del lavoro e della corsa a ottenere chissà cosa si oppone un giardino interiore, popolato dal violino di Paganini – la playlist potete ascoltarla scansionando il QR o digitando il link qui sopra – e dischiuso da una prosa attenta a dettagli solitamente trascurati, capace di redimere una quotidianità che è sempre anche la nostra. ‘A una voce’ di Sabina Zanini, appena pubblicato da Gabriele Capelli, è un esordio stupefacente scritto all’insaputa di tutti, che si è meritato il premio Studer/Ganz 2021. Uno di quei libri che fa venir voglia di parlare con la sua autrice.

"È più libero un pinguino in un giardino zoologico a cui hanno ricostruito attorno una parodia di banchisa polare". Nel suo romanzo breve il (la?) protagonista è lucidamente consapevole del ‘sistema’. Accetta supinamente questa "asettica messinscena digitale" nella quale riconosce "l’universo infinito della mia rassegnazione", eppure vi si dimostra caparbiamente irriducibile: ci lavora, però non ci vive. La sua è critica sociale?

In realtà è un po’ come nei documentari naturalistici che poi guarda la sera: c’è lo spirito d’osservazione distaccato dell’etologo, quando scruta le strategie di sopravvivenza della fauna. Però non c’è un giudizio morale, semmai l’idea che "il mondo funziona così, io però cerco di restarne fuori". Una scelta deliberata, razionale, che parte dal riconoscimento di non disporre delle armi per questa competizione, ma che non comporta un atteggiamento di lotta. L’aspetto più forte di critica – e di sofferenza – emerge piuttosto quando torna a casa e vede la sua tana minacciata dalle pretese e dalle invadenze del vicinato.

"Voglio essere la prima insignificante pedina allontanata sull’orlo della scacchiera, quella che il contendente sacrifica a cuor leggero solo per aprire un po’ il gioco". Viene in mente il Bartleby di Melville, solerte "scrivano" d’ufficio che oppone agli incarichi il suo sommesso "preferirei di no" e alla fine si lascia morire d’inedia. Però qui non c’è neppure resistenza passiva, se non tutta interiore.

A dir la verità non ho scritto pensando a un modello in particolare: la mia titubanza nell’uscire allo scoperto scrivendo deriva anche dal fatto di aver studiato letteratura, quindi di essermi confrontata con capolavori un po’ "schiaccianti", che inibiscono la volontà di pubblicare qualcosa di proprio. L’idea iniziale era quella di lavorare su una trama più rarefatta possibile usando lo strumento del ‘monologo’ entro il recinto di una singola giornata, per descrivere il contrasto tra la quotidianità sociale e il mondo interiore. Col senno di poi, forse un’ispirazione inconscia viene piuttosto dall’autoesilio descritto in ‘À rebours’ di Huysmans, che avevo letto da ragazza, fatte ovviamente le dovute proporzioni.

Il ‘tono’ del romanzo fa pensare a una vita rassegnata – "mi riesce più facile sognare di vivere che vivere" –, ma senza troppe tristezze. Una solitudine in cui si accetta anche la mancanza di senso, sicché, come diceva Camus, "bisogna immaginare Sisifo felice". Possiamo chiamarlo stoicismo?

Sì, assolutamente. Il protagonista si impegna razionalmente a tenere in mano il suo destino nell’unica dimensione che ritiene di poter davvero dominare: il mondo del pensiero, che coincide con la sua identità. All’accettazione di questo sdoppiamento rimanda anche l’accenno al termine ebraico ‘chaim’, vita, la cui desinenza mi piace interpretare come un’allusione al plurale duale. I due piani dell’esistenza però non sono in contrasto schizofrenico, anche se ci può essere un aspetto un po’ nevrotico.

I riferimenti al mondo ebraico sono molteplici, specie quando il protagonista si confronta con l’assurdo.

Si tratta di vecchi ‘sedimenti’ culturali che sono riemersi mentre scrivevo, visto che si prestavano a una dimensione fondamentale del romanzo: dibattere, interrogarsi anche a costo di non venire a capo di nulla, come nel Talmud o in certe allegorie ‘in cortocircuito’ di Franz Kafka.

Nel giardino interiore regna la musica, ascoltata ad ogni occasione: colazione, pausa pranzo, piccoli intervalli rubati – in senso anch’esso musicale – alla routine d’analista di mutui, quindi dei sogni e delle illusioni di famigliole e piccoli imprenditori. Esclusivamente musica di violino, esclusivamente Paganini. Perché?

Concretamente, ho scoperto il violino dovendo seguire mia figlia a lezione fin da molto piccola. Ho accumulato volente o nolente una certa conoscenza in materia e me ne affascina l’aspetto lirico, anche ambiguo: è lo strumento che vediamo in mano agli angeli e ai demoni. Nel contesto del racconto, ho trovato che si trattasse dello strumento ideale per fare da contrasto al grigiore della quotidianità, così come Paganini – uomo di spettacolo, amante della ribalta, secondo alcuni egli stesso demoniaco – costituisce il rovescio perfetto per un’individualità per molti versi anonima, dimessa, reticente. Il suo repertorio mi ha permesso di creare riferimenti adatti a ogni momento della giornata, dai capricci per la colazione alla preghiera, passando per il moto perpetuo, fino al cantabile di congedo.

"Caino uccide il fratello e risponde sfrontatamente a Chi lo interroga. Un esordio che lascia intuire il seguito". Un’idea di umanità che porta poco lontano: "Alla fine ho eliminato ogni possibilità di intesa con i miei consimili. A cercarlo colpevolmente, si trova un motivo di delusione in chiunque". Siamo sicuri che il dualismo vissuto dal protagonista sia davvero ‘risolto’?

Anche in questo senso il protagonista cerca di razionalizzare il suo deliberato distacco dal prossimo, di legittimarlo. Sotto la costruzione razionale, però, resta comunque l’aspetto nevrotico del suo ritiro, che si scontra col fatto che volenti o nolenti siamo animali sociali. D’altronde le sue scelte appaiono fortemente condizionate da un trauma, la morte della madre, che descrivo nelle primissime pagine e che provoca la sua reazione: si tratta della parte di esistenza che non ha potuto controllare, alla quale reagisce con la sua scelta di vivere una vita sdoppiata.

È la scena più cruda di tutto il libro: la madre corrosa dal cancro finisce per vomitare le sue feci, "un percolato scuro". Da lì in avanti il confronto con la caducità e la morte è costante, è l’imponderabile che fa da contrappunto al surreale autocontrollo del protagonista, e ogni volta che se ne parla sono stilettate per il lettore.

Ho fatto fatica a scrivere quelle pagine, nelle quali chiaramente parlo della morte di mia madre. D’altronde puoi inventarti tante cose, ma difficilmente puoi descrivere qualcosa del genere se non ci sei passata. Però non si trattava solo di elaborare, di ‘buttare fuori’ un dolore.

Qual è il rapporto del personaggio con la morte?

Non so se saprei dirlo davvero. Forse c’è una sorta di rassegnazione, di fatalismo. Come quando vede la gente correre e affannarsi, e pensa subito che basta una diagnosi nefasta per chiudere i loro giochi. C’è anche una sorta di pessimismo, sebbene non nichilista, e in questo la sua lucidità diventa anche un po’ castrante.

Il contrasto tra accettazione e fuga si riflette anche nelle fugaci connotazioni geografiche della storia, che d’altronde è difficile non immaginare ambientata nella Lugano delle banche, delle pause pranzo al parco, delle pensiline e degli assicuratori da palestra. "Noi dichiariamo solo abbondanza. Rannicchiati in un massiccio montagnoso, ci teniamo al riparo da qualsiasi evento". Eppure si sogna di scappare.

Anche questo è un modo per enfatizzare il dualismo tra il mondo esterno e quello interiore. Si tratta di un desiderio di fuga mai realizzato: la tentazione di scartare dal percorso quotidiano, di allontanarsi dalla banca, si risolve in un’azione mancata. Basta un collega che chiede se si decide a entrare – l’unica brevissima interazione con un altro individuo – per risucchiare di nuovo il destino nella routine.

Una trovata geniale del romanzo: non si riesce a capire quale sia il genere del protagonista.

È una sorta di burla e mi ci sono molto divertita. Confesso che è stata dura riuscirci, visto che mi vincolava a evitare participi e aggettivi che non finissero in ‘e’. Ma mi piaceva l’idea di invogliare il lettore a confrontarsi con un individuo e basta, per quel che pensa e che prova, al netto del genere. Questo naturalmente chiama in causa anche i condizionamenti inconsci di ciascun lettore, che proietterà un genere sul personaggio anche alla luce di convinzioni e stereotipi.

Infine, lo stile: la cura del dettaglio, la generosa puntualità lessicale, sempre misurata e cesellata, diventa fondamentale per far emergere la ricchezza nascosta da una vita apparentemente banale. Dove sta il trucco?

Essendo cresciuta con genitori che non erano di madrelingua italiana, l’italiano ho dovuto impararlo piuttosto fuori casa, soprattutto leggendo. Questo mi ha portato a coltivare una lingua un po’ particolare. Nel romanzo ho cercato di giocarci per distinguere il piano della quotidianità, descritto in modo più asciutto, da quello dell’interiorità, nel quale il lessico si fa più variegato. Devo dire che è stato comunque fondamentale il lavoro dell’editor, che mi ha aiutato a liberarmi di certe artificialità e arcaismi. Lo scopo del registro, alla fine, è un po’ quello dell’opera in generale: guardare nelle minuzie, nell’infinitamente piccolo, per scoprire che non esiste una giornata davvero noiosa. E neppure una persona veramente insignificante.

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