Culture

Le realtà delle ‘Città invisibili’, cinquant’anni dopo

Il libro di letteratura combinatoria di Italo Calvino, pubblicato nel 1972, anticipa l’anniversario dei cento anni dalla nascita

Un cinquantenario precede l’anniversario calviniano del prossimo anno, dei cento anni dalla nascita: quello di ‘Le città invisibili’. Il libro centrale senza dubbio dell’ultimo periodo della carriera dello scrittore. ‘Le città invisibili’ compongono una costruzione complessa che è solo una delle infinite possibili. Lo scrittore stesso racconta come l’idea e il testo siano nati, cresciuti e come vi ha messo l’ultima tegola. La raffinata costruzione in ogni caso sa di non stringere nulla: ha dato una forma possibile e temporanea a ciò che resterà informe.

Sono gli anni dell’Oulipo anche per lui, la francese Officina di Letteratura Potenziale. Gli anni dell’irregimentazione del gioco che aveva praticato prima liberamente. L’Oulipo gioca a infittire le norme e ingabbiare l’opera nascente per vedere che succede. Se sopravviverà al soffocamento, sarà salva. Nel caso di Perec, Calvino e Queneau, grandi giochi che diventano grandi libri ma non sempre. La scrittura delle ‘Città invisibili’ in fondo è più vicina al ‘Milione’ di quanto sembri, ben oltre il semplice spunto: per la fascinazione del personaggio Polo e della lingua lineare e scombinata, tutta elenchi e accostamenti impensati. Il Marco del ‘Milione’ riferiva di città reali che paiono immaginate. Quello di Calvino descrive città inesistenti che sono vere qua e là nel mondo, in certi istanti. Attraverso le sue città impossibili (invincibili, indecifrabili…) Calvino vuol afferrare quel poco di realtà afferrabile, anche se la lotta con la realtà ha regole che decide lei. Perdi sempre se ti sottrai. Vinci sempre se ti consegni. Se ti consegni perdi, ovviamente, ma è come vincere.

L’attenzione di Calvino teorico è sempre stata verso la realtà. La stessa realtà che all’atto pratico temeva e rifuggiva. E l’atto pratico per un narratore è la narrazione. Monito a tallonare il reale da un lato, per sé e per tutti, e costrizione alla favola dall’altro. Così aveva cominciato, con ‘Il sentiero dei nidi di ragno’, e così fece in tutti i suoi libri più vitali. Non a caso l’esperienza centrale fu quella delle ‘Fiabe italiane’, che confermò per lui tutto un mondo inesauribile cui attingere, in assenza dell’altro troppo impenetrabile. Quanto ai lettori, si ritrovarono con le ‘Fiabe’ quello stesso mondo più un manuale di scrittura altrettanto inesauribile.

Poi neppure la favola bastò o ne era stanco. Tentò lo scontro con quella realtà. Il reale lo ricacciò più indietro di dove si trovava, una volta per sempre. Ognuna delle ‘Città invisibili’ non è forse che l’avvicinamento tentato a città reali, e fallito. Non sul piano artistico naturalmente. Siamo davanti a un evento importante, oltre che a un libro attraente e complesso: il caos entra nelle pagine di Calvino e l’autore non vi oppone resistenza. Lo affronta come può ma senza gli assili di altri momenti. Da tanto astratto disordine, in cui insieme all’orientamento manca l’aria, l’autore cerca di svicolare nelle pause in cui Marco dialoga con il Khan, ariose e morbide, dove invece i ritratti delle città tendono all’oscuro e al tutto-pieno, al rigido e appuntito.

Il creatore di città Italo Calvino può ricordare, per affinità e per contrasto, un altro creatore. Compare in un micro-racconto di Jean Tardieu e vale la pena di accennarvi. "Prima di fare naufragio, godevo di un’immaginazione debordante… Appena sveglio, inventavo un uomo: ero io (…) L’uomo che io ero s’inventava un nome, una famiglia, una posizione sociale. Si costruiva un palazzo, dentro questo palazzo un appartamento, dentro l’appartamento...". L’omino di Jean Tardieu in principio non dimentica nulla nelle sue successive creazioni: vestiti, scarpe, cappello e "una borsa di cuoio piena di documenti importanti". Inventa il vicino che sgrida il cane, il cane, il tetto e "sopra al tetto, il cielo silenzioso". E aprendo la porta si ritrova sul vuoto: ha dimenticato le scale. "Che imbecille! Avevo scordato di inventare anche la strada! E di che città, poi?". L’enorme distrazione non porta allo scacco, però, o porta a uno scacco aereo e leggero. "Allora il mio palazzo, col vicino e il cane del piano di sotto (…) si mise a galleggiare nel vuoto e partimmo per una destinazione sconosciuta, cullati dolcemente dalle onde dello spazio come un vascello sul mare".

L’omino si perde per la sua dimenticanza come si disorienta Calvino in ognuna delle sue creazioni. Ed è curioso che "L’inventeur distrait" dello scrittore francese compaia in un libro del 1972, La part de l’ombre, giusto l’anno delle Città invisibili.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE