Il ritorno dello scrittore francese affronta (ancora) la decadenza dell’Occidente, l’eutanasia e il bisogno di crearsi un rifugio di affetto. Finché dura
Un compendio di 739 pagine sulla decadenza dell’Occidente a fronte della quale una persona, sconfitta nella vita sociale, lavorativa, economica e nei suoi valori, non può far altro che rifugiarsi nell’amore e nella famiglia cercando di erigere un muro affettivo destinato, comunque, a sgretolarsi davanti all’inevitabile fine. Questo è “Annientare”, il libro che segna il ritorno di Michel Houellebecq per La Nave di Teseo su una scena letteraria di cui, a volte veggente altre volte provocatore – altre volte entrambe –, è indiscusso attore protagonista. Un vero inno alla vita per lui sempre più derubricata a parentesi dove il materialismo, la scristianizzazione e il capitalismo hanno reso la persona un bipede che più vive, più deve pagare il conto per aver osato sopravvivere.
“La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della Terra”, scrisse Louis-Ferdinand Céline ne “Viaggio al termine della notte”, romanzo da considerare pietra angolare e punto di partenza per poter comprendere Houellebecq, scrittore che qualche guascone con uno spiccato senso dell’impudenza e dell’ironia è riuscito a definire “pop”. Ebbene, l’infelice della Terra nel caso di “Annientare” è Paul, funzionario del ministero dell’Economia francese alle prese con la campagna elettorale per le presidenziali del 2027, dove il suo competente ministro Bruno (personaggio totalmente ispirato all’attuale ministro Bruno Le Maire) è pronto a diventare capo del governo in caso di vittoria del candidato del suo partito: un presentatore televisivo. Paul è sposato con Prudence, ma entrambi non lo sanno più da anni. Camere separate, orari diversi, giorni interi senza neanche vedersi, compartimenti riservati e ben distinti nel frigorifero.
La dissoluzione di molto che circonda, la perdita di ogni valore – in primis quello per la vita –, la morte che diventa protagonista nelle rispettive famiglie portano Paul e Prudence a riavvicinarsi. Portano l’amore ad avere la dolcissima pretesa di essere ancora leva con la quale si può sollevare il mondo, rifugio ultimo quando tutto è perduto. Ma con queste premesse è impossibile che l’amore possa portare pure la speranza. In moltissime recensioni che hanno accompagnato l’uscita del libro si è letto di uno Houellebecq finalmente un po’ ottimista, che apre alla luce, che non si abbandona al consueto nichilismo ma che accende un’ultima fiammella di speranza. Ebbene, è gelida la fiammella di speranza che accende l’amore in “Annientare”, perché la ragione unica per cui viene accesa è il fatto che di altro non c’è più niente: a partire dal rispetto per la vita.
Non c’è traccia della pandemia nel 2027 in cui si svolgono i fatti. Ma ci sono, vero fulcro della storia che accompagna Paul e Prudence, il ‘fine vita’, gli anziani e la delittuosa mancanza di rispetto per loro nelle Rsa, il menefreghismo per la loro sofferenza, il considerarli come uno scarto solo perché non più utili alla società, al profitto e all’economia. La pietosa condizione della struttura dove finisce il padre di Paul dopo un malore che lo paralizzerà a eccezione delle palpebre, è la pietosa condizione in cui la politica ha infilato il settore della cura degli anziani in Francia, denuncia uno Houellebecq che riprende, con ancor più vigore, la sua battaglia contro l’eutanasia.
Commentando con una lunga lettera aperta sul “Figaro” lo scorso 5 aprile il dibattito sulla proposta di suicidio assistito, Houellebecq scrisse testuale che una società, una civiltà che arriva a legalizzare l’eutanasia perde ai suoi occhi ogni diritto al rispetto. In “Annientare” la denuncia si amplifica e allarga il proprio raggio: cosa ha ancora da dire una società che permette che i suoi anziani muoiano da soli, senza dignità, abbandonati in strutture dove vengono parcheggiati dai parenti e dove, dopo una puntura e una rapida cremazione, “la dispersione delle ceneri veniva effettuata in modo anonimo, da un membro della famiglia quando c’era, o da un giovane impiegato dello studio notarile”? Domanda retorica, risposta immediata: niente. L’eutanasia della persona e della vita diventa eutanasia di un Occidente che mostrandosi incapace di accompagnare in modo amorevole un anziano alla morte derubrica l’intera vita di quella persona a niente. L’Occidente che sacrifica se stesso e i suoi valori sull’altare del moderno, del cool, della velocità, del fiume che continua a scorrere ma dell’assenza di qualcuno che su una barca, anche se piccola, provi a governare la corrente.
In tutto questo Paul, infelice della Terra che da più di vent’anni ha cominciato a morire, i remi di quella barca riesce a riprenderli in mano. Le braccia rispondono ai comandi, scogli e risacche vengono evitati. Ritornano l’eccitazione irrefrenabile quando vede Prudence indossare shorts di jeans al mare, il buon vino, le vacanze insieme, il nido che costruisce amore davanti al disastro. Una bella parentesi prima del ricordarsi che se si è infelice della Terra, insegna per centinaia di pagine Céline, lo si resta. Arriva l’ultima notizia che uno vorrebbe, arriva il principio di realtà, arriva l’attaccamento strenuo alla vita da vivere, non al bagaglio che qualcuno porta senza nemmeno accorgersene. Arriva la dichiarazione d’amore per la vita annientata. Arriva la foresta autunnale di Compiègne, con le sue foglie gialle, col tramonto di una stagione verde e scintillante che declina viepiù in una notte senza stelle. Arriva la vittoria della realtà. Sarebbe stato impossibile cambiare le cose, dice Paul a Prudence. “Avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne”, risponde lei piangendo. Quelle meravigliose menzogne uniche amiche capaci di costruire un muro di affetto e proteggere ciò che davvero conta: quello che si è, il come lo si è, amando il più possibile, per non essere soli nella traversata.