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Tra le righe di ‘Kill Venus!’

Liberare il femminile tradito negli uomini e nelle donne nel libro di Lina Bertola

Lina Bertola
7 novembre 2021
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“Il momento più felice della mia vita”: chi può mai dire di averlo raggiunto e quando mai lo si può dire?

Una donna che da bambina guardava il padre con tutto l’affetto e l’ammirazione che possiamo ben immaginare, laddove l’infanzia è accolta da chi deve prendersene cura come il dono più grande, osserva ora l’anziano genitore: il corpo impedito, i movimenti limitati dal suo progressivo e inesorabile declino. E ricorda, con infinita gratitudine, l’esuberanza di un corpo allora imponente che la faceva giocare, la faceva giostrare, le insegnava ad amare e a guardare il mondo. Ne ricorda la fisicità, la forza con la quale veniva presa in braccio, posata sulle spalle; la sicurezza con la quale le veniva trasmessa l’ebbrezza della felicità. Ma ricorda, soprattutto, come questa fisicità fosse capace di una strepitosa accoglienza: vigore e dolcezza al contempo.

E proprio qui sta il punto. Perché la capacità di accogliere, cioè di prendersi cura – questa straordinaria disponibilità a donare spazio e tempo, cioè a donarsi all’altro – è un carattere tipico del femminile. Un femminile, stando a questa esperienza, per così dire, fondativa, che trascende però le differenze di genere.

L’autrice osserva suo padre, e nella estrema fragilità del corpo può infine scorgere il non detto di un vigore che, per quanto sia ormai solo un ricordo, proprio in quel momento, libera la sua lezione più preziosa: il coraggio del femminile, come presenza sottesa e lasciata sbocciare in sé, senza timore. Lezione impareggiabile che il padre ha incarnato nei suoi gesti, nella sua relazione con la figlia, con gli altri, con se stesso. E grazie alla quale nel momento della massima vulnerabilità, a 94 anni, costretto su una sedia a rotelle, può infine affermare che proprio questo è il momento più bello della sua vita: ora che la fragilità è all’apice, ora che di sé non resta se non ciò che si è stati, se l’essere stati coincide, come scrive Pindaro, con l’essere diventati ciò che si è.

Al padre

La lettera indirizzata al padre, con la quale si chiude il libro, dà conto di questa estrema saggezza, che è possibile conquistare quando si ha il coraggio di spezzare gli stereotipi e i pregiudizi che ci schermano a noi stessi. Nel Faust Goethe scrive: tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto che si completa, l’ineffabile è qui realtà: è l’eterno femminino che ci attira in alto accanto a sé. E proprio commentando questo passo, Simone Weil osserva che il principio femminile simbolizza la potenza e la materia, misteriosa passività ed essenziale veicolo di palingenesi: il femminile sveglia lo spirito sopito e gli indica la sua più autentica natura e dignità.

Dunque, solo una esistenza capace di accogliere in sé la forza e la fragilità della vita è un’esistenza capace di autenticità. Un’esistenza che riconosce e fa propria la natura stessa dell’anima, che è al contempo maschile e femminile. Del femminile, Lina Bertola scrive appunto che è “un volto dell’anima” e che è proprio questo volto che ha iniziato ad apprendere fin da bambina, tra le braccia del padre. Il primo passo per cercare di spezzare, come si legge, all’inizio del libro “le potenti gabbie simboliche in cui gli uomini e le donne sono stati pensati nel corso della storia”.

All’allieva

Nell’altra lettera presente nel libro (il libro si apre e si chiude con una lettera), scritta questa volta a un’allieva interessata alla sua storia di donna, l’autrice chiarisce subito che il femminile è un attributo della vita, che solo arbitrariamente è stato assegnato all’“essere delle donne”. Un nutrimento che, là dove viene lasciato agire, permette alla vita un dispiegamento più pieno delle sue potenzialità, come dice Goethe: l’imperfetto che si completa.

Ma come lasciarlo agire, se apparteniamo a una cultura che confrontata con la dirompenza del femminile ne ha avuto paura. E quindi lo ha inibito quando non violato, facendone un principio contrario alla Ragione – in una perversa identificazione della sua minaccia, della sua vitalità, della sua alterità con la natura della donna?

Perché ciò sia accaduto e come sia accaduto, il saggio di Lina lo spiega attraverso una costruzione che mette in gioco la storia del Logos, di una Ragione cioè che identifica con orrore la forza del caos. Anzi che si pensa come potenza stessa capace di neutralizzarla. La storia di questa neutralizzazione è anche la storia della contenzione del femminile, oltre che la storia di una violenza che ha fatto della donna e del suo corpo un terreno tanto di predazione quanto di misconoscimento e di limitazione. Nel femminile vi è un’alterità negativa, uno straniero che si è voluto ascrivere alla donna, e che nella donna si è voluto punire.

Un modo di sentire la vita

Il libro offre argomenti puntuali per una operazione di emendazione intesa a liberare il femminile: non, ripetiamolo, come carattere specifico della donna, ma come risorsa della vita, come promessa di una pienezza dell’esistere che è anche un emendamento della stessa Ragione, della sua unilateralità, della sua cieca fede in se stessa. Ogni qual volta questa risorsa viene negata, il mondo diventa più povero. E noi sappiamo di quanta povertà sia gravato il mondo oggi, quando proprio la forza che avrebbe dovuto signoreggiarlo si rileva come ciò che lo sta facendo perdere a chi avrebbe dovuto imparare ad abitarlo altrimenti. Se è vero, come è vero, che quello che ci tocca in sorte oggi è un mondo sempre più inospitale.

Lina Bertola scrive che è dal modo in cui suo padre sapeva nutrire il suo mondo di bambina che le si è poi chiarita la natura del femminile, il suo essere prima di tutto un attributo della vita. Di più, scrive che è stato tra le braccia del padre che questa consapevolezza si è fatta strada.

Il corpo che sa accogliere, quando per chi viene accolto tutto è ancora aperto al possibile, inscrive il mondo in un altro ordine del senso, nello spazio di un poter essere altrimenti. È questa esperienza infantile ad insegnare come il femminile sia un modo di sentire la vita. Un modo che, se perseguito come una risposta all’impasse delle nostre società contemporanee (più accelerazione per andare dove, più razionalizzazione per raggiungere cosa?), può definire una nuova comunità, dove uomini e donne imparino a riconoscersi in modo diverso, rispetto alle proprie rappresentazioni e autorappresentazioni. Vi è nel saggio di Lina Bertola una non dichiarata prospettiva politica, che utilizza il femminile come leva per ridisegnare i legami sociali.

L’esperienza conoscitiva di cui ci parla il libro ha nel “sentire” – la presenza, la forza, la tenerezza del padre – la sua primaria condizione di possibilità: ed è stupefacente che questo libro sia stato scritto proprio quando questa presenza, questa forza, questa tenerezza stavano per varcare la soglia della vita. Proprio come scrive l’immenso Attilio Bertolucci: “Assenza, più acuta presenza”.

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