laR+ Il ricordo

In memoria di Luigi Blasucci

Il ritratto di uno massimi italianisti, spentosi a Pisa lo scorso 29 ottobre.

Altamura, 23 maggio 1924 – Pisa, 29 ottobre 2021

All’età di novantacinque anni, è morto a Pisa il 29 di ottobre, Luigi Blasucci. Nato ad Altamura (Bari) nel 1924, professore emerito della Scuola Normale di Pisa, a Blasucci è toccata in sorte una lunga e operosa vita, che ne ha fatto uno dei massimi italianisti del nostro tempo. Dal primo libro su Dante e Ariosto del 1969 all’ultimo su Leopardi del 2019, ha coltivato per un verso un canone di autori ‘eccellenti’, principalmente ‘poetici’ è vero (per la prosa resta unica la curatela delle Opere di Machiavelli) che annovera anche Ariosto e Montale e, per un altro, è risalito, nel suo lavoro di critico, dagli autori più antichi verso i moderni e contemporanei, dei quali ha saputo dare letture impareggiabili. Non è facile trovare tra gli intellettuali e accademici italiani del suo campo una tale fedeltà di ‘metodo’, che per lui è stato sempre quello della critica stilistica anche quando – come ne Gli oggetti di Montale del 2002 – pareva privilegiare una diversa “Sachlichkeit”: quella di cui si era fatto interprete, nella sua stessa Pisa, un grande critico come Francesco Orlando nel saggio su Gli oggetti desueti della letteratura. Ma in Orlando, francesista, agiva, e sempre più avrebbe agito nell’accesso agli autori, oltre che la critica ‘tematica’, anche il filtro della psicanalisi, disciplina da cui Blasucci si teneva invece lontano.

La ‘stilistica’ degli autori al centro

In Normale, aveva avuto maestri molto diversi tra loro, come Luigi Russo, Mario Fubini e infine Gianfranco Contini, ma era andato presto per una sua strada. L’affrancamento dall’ipoteca idealistica che marcava il lavoro di Russo e Fubini, e che necessariamente passava per il rapporto privilegiato con Croce, si avvertiva nel modo in cui Blasucci leggeva i suoi autori. Al centro era, per lui, la dimensione ‘artigianale’ del far poesia, quella della lingua e della metrica dei testi: in una parola la ‘stilistica’ degli autori. La poesia era così ricondotta dal cielo in terra dopo la «paralisi teorica» dell’intuizionismo crociano, che ancora lasciava tracce anche in critici eccellenti e stimati come Emilio Bigi. Su questo aspetto del «fare», cioè del ‘comporre’ (gr. ‘poïein’ da cui poesia), alcuni grandi autori coincidevano nella riflessione. Dante nel De vulgari parlava di fabricatio, Paul Valéry in più testi di fabrication: «Je ne crains pas le mot fabrication, car poésie signifie fabrication», scriveva. Nel conciso ritratto che Blasucci diede di Luigi Russo dantista, nell’Enciclopedia dantesca, è còlto l’alleggerimento e la maggiore dialogicità del maestro nella interpretazione del poema, rispetto al rigido distinzionismo di poesia e struttura che era del Croce. Nei confronti di Fubini sempre dichiarò i suoi debiti, che erano di scuola ma più specificamente metrici, ariosteschi e leopardiani. Discusse a più riprese i suoi studi di metrica partendo da Metrica e poesia, che Fubini pubblicò nel 1962 o dalle note inedite dei corsi, che oggi si trovano alla Normale di Pisa. E si capisce perché: lì a lui, postcrociano, meglio si rivelava la distanza che separava il maestro da Croce, nel passaggio che Fubini operava dall’astrattezza teoretica degli schemi alle categorie còlte nel vivo dei testi. Fubini resterà per Blasucci il maestro negli studi leopardiani e il suo commento ai Canti, con quelli nel frattempo apparsi di Gavazzeni-Lombardi, della Muñiz Muñiz e di Giuseppe e Domenico De Robertis (del quale, per la complessa integrazione dei commenti, usava dire che il figlio aveva ucciso il padre tra parentesi quadre), gli era ancora presentissimo dopo più di quarant’anni.

Fra tutti, però, fu la lezione di Contini (di cui lascerà un ricordo proprio come Leopardista ne La svolta dell’idillio del 2017) a mostrargli la via più ‘alta’ di un’uscita dal clima idealistico primonovecentesco. Contini si definiva «piuttosto post-crociano che anticrociano» e nei fatti lo fu, aprendo vie nuove fin dal 1939 con l’edizione commentata delle Rime di Dante. Suo fu il recupero sottotraccia della linea Mallarmé-Valéry, che invece Croce aveva rifiutato, facendo di Baudelaire l’ultimo poeta per lui accettabile del simbolismo e definendo Mallarmé più «un illuso o un ‘poseur’, non esente da consapevole o inconsapevole cerretanismo» che l’incarnazione della modernità letteraria. Al contrario, la sotterranea usucapione continiana di quella lezione dava i suoi frutti nel considerare il «farsi» del testo almeno quanto il suo assetto definitivo, o meglio riducendo questo a quello con un senso nuovo delle fasi elaborative attraverso cui passa l’opera di ogni autore. L’esempio del Cimetière marin strappato a Valéry da Jacques Rivière e giunto, in una fase ‘non finita’ e fuori della volontà dell’autore, alla pubblicazione, era la prova del costante ‘hasard de l’histoire’ ma soprattutto della speciale ‘storicità’ di ogni fase del testo. Da lì, anche l’interesse per le varianti d’autore, che Contini – sulla linea di filologi classici e romanzi come Pasquali e Debenedetti – aveva fatto sua molto presto. Va detto che Luigi Blasucci, da questa linea è rimasto sempre prudentemente distante, operando in genere sull’assetto definitivo del testo.

Forse l’unica misurata eccezione è stato Leopardi, del quale la splendida edizione del Moroncini aveva, nel 1927, valorizzato la dimensione elaborativa dei testi. Ma anche qui, e fino all’ultimo (penso al libro Commentare Leopardi edito un anno prima del suo grande commento ai Canti del 2019), la prudenza di Blasucci era evidente nell’utilizzare – come era venuto sempre più in uso – le varianti d’autore in sede esegetica. Personalmente ricordo la sua domanda, che suonava franca obiezione, sul senso che aveva il recupero editoriale del primo Furioso del 1516, posta durante un seminario dottorale ai responsabili del progetto. Non lo disse, ma era evidente che per lui bastava l’edizione critica di Segre che dei diversi stati del testo ariostesco dava conto in apparato.


Blasucci alla Normale il 25 giugno 2019 per una Lettura collettiva in occasione del Bicentenario dell’Infinito

A Mendrisio per parlare di Montale

Del suo alto magistero, iniziato per altro nella scuola secondaria che ricordava spesso, ha beneficiato anche la scuola ticinese in varie occasioni. Ricordo, perché ne fui all’origine, l’invito rivoltogli a venire a parlare di Montale ai ragazzi del Liceo di Mendrisio. E ci si trovò così bene che a distanza di tre anni ci fece l’onore di ritornare, questa volta per presentare Leopardi. Nel pomeriggio dirigeva appassionati seminari per i docenti delle scuole superiori e, alla sera, intorno al desco, erano infinite discussioni su tutto, compreso il calcio e la sua amata Juventus. Nel suo parlar chiaro, l’uomo non mancava di verve, anche linguistica. A chi lo felicitava per essere uno dei maggiori italianisti ‘viventi’, aggiungeva: “E morituri”. Nel 2019, alla presentazione milanese del primo volume del suo commento a Leopardi (se ne fece carico il collega Christian Genetelli), a un signore più giovane che gli diceva di “sperare di vivere ancora a lungo per vedere il secondo volume del suo Commento”, il novantatreenne Blasucci rispondeva “e io spero di vivere a lungo per finirlo”. Lo avremo, questo secondo volume, a novembre, avendo potuto terminarlo appena prima di lasciarci.

Tra gli autori che Blasucci ha fatto suoi, Leopardi ha goduto certo della massima adesione e complicità, quasi una simpatia in senso etimologico. Già c’erano stati gli Studi su Dante e Ariosto del 1969, due autori che venivano dalle lezioni di Russo e di Fubini, e però erano passati al vaglio del magistero di Contini. Ma i cinque volumi leopardiani che Blasucci pubblica tra il 1985 e il 2018, e che ora ci appaiono un preludio al grande commento ai Canti – e il primo e più noto su Leopardi e i segnali dell’Infinito è dedicato, a riprova di quanto si diceva, «alla memoria sempre viva e cara di Mario Fubini» – costituiscono uno straordinario lascito di intelligenza interpretativa e di sensibilità poetica. Le sue letture convergono ora nel magistrale commento del 2019, una «forma» cui Blasucci ha guardato tutta la vita e che però sembra aver inconsciamente ritardato quasi riconoscesse per Leopardi la necessità di un’esperienza di tutta una vita. Nel 2018, l’aveva fatto precedere da un volume cui affidava incisive riflessioni su quell’‘esercizio’. Leopardi fu certo un poeta ma anche un ‘pensatore’; e ‘pensatore fu prima in poesia (si pensi alla grande poesia dell’Infinito del 1819) che nelle Operette morali o nello Zibaldone. Necessitava dunque, secondo Blasucci, di una glossa che tenga in conto gli aspetti linguistici ma altrettanto quelli ideologici e di pensiero. Le osservazioni affidate a Commentare Leopardi sull’uso – che a volte è diventato abuso – dello Zibaldone a supporto dei testi poetici fanno il pari con quelle bellissime che ci ha dato un’altra grande leopardista, Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, il cui commento e traduzione in spagnolo dei Canti (Madrid 1998: seconda ed. rinnovata 2009) resta un capolavoro assoluto di penetrazione linguistica e psicologica.

Resterà, come restano i classici, attraverso l’opera

Per tutto questo, e per il senso che ora la morte dà al suo lavoro critico, Blasucci ci appare come un «classico» nel panorama dei grandi lettori novecenteschi di poesia, se «classico» è, come ha spiegato benissimo il terzo grande lettore di Leopardi, Gilberto Leonardi, un autore che condensa e rimotiva la tradizione della poesia accompagnandola a una riflessione radicale sul proprio mestiere di poeta. Di Leopardi, Blasucci ha privilegiato l’esegesi puntuale del testo senza mai perdere di vista l’opera intera. Ha tenuto insieme “gli alberi e il bosco”, inserendo l’unità nel continuum e meno fidandosi degli apporti della biografia. Ha orientato le sue sensibilissime antenne ai generi letterari e alla metrica che collegavano Leopardi alla grande tradizione classica e moderna, ha perciò egli stesso fatto uso esemplare di ciò che oggi si definisce «intertestualità». Facendo suoi questi paradigmi, ha avuto il merito (come ha ricordato Mengaldo in un affettuoso omaggio pisano del 2005) di superare antiche categorie interpretative, che hanno per decenni ipotecato gli studi leopardiani. Penso al «progressismo» di Luporini, all’«antagonismo» di Binni al «nichilismo» di Baldacci o al pre-nietzschanesimo di altri lettori. A parte, è da mettere il «materialismo» di Sebastiano Timpanaro, straordinario studioso della civiltà classica e italiana dell’Ottocento con cui Blasucci ebbe un dialogo assolutamente privilegiato, che forse (se un giorno lo conosceremo) l’epistolario confermerà. Uomo dal dialogo franco, scrittore sobrio e perspicuo, lettore «assez intérieur» (così Valéry pensava del lettore di Virgilio), Luigi Blasucci ci resterà – come restano i classici – attraverso la sua opera. Le sue anamnesi critiche hanno formato intere generazioni di lettori ma hanno dato loro, anche, – e non è l’ultimo merito del suo magistero – il gusto della lettura e la sicurezza nel cogliere la qualità del testo.


Massimo Danzi, professore all’Università di Ginevra

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