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Andri Snær Magnason e il tempo della crisi climatica

Intervista all’autore e attivista ambientale islandese, tra gli ospiti della 15ª edizione di ChiassoLetteraria, dal 1° al 5 settembre

1 settembre 2021
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La crisi climatica è anche una questione di linguaggio, delle parole con cui raccontiamo l’impatto delle attività umane, di come ci rappresentiamo i tempi con cui cambiano l’essere umano e l’ambiente.

Andri Snær Magnason è alla ricerca delle parole giuste: lo scrittore e attivista islandese – alcuni ricorderanno il funerale al ghiacciaio Okjokull, con la ‘Lettera al futuro’ scritta appunto da Magnason – sarà tra gli ospiti della 15ª edizione di ChiassoLetteraria, festival che si apre questa sera con una serata di musiche e poesie persiane (programma completo su chiassoletteraria.ch). Magnason presenterà, sabato 4 settembre alle 15.30, il suo libro ‘Il tempo e l’acqua’ (Iperborea), ma la nostra intervista non può che iniziare dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, il documento del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico da poco pubblicato. Per il clima abbiamo meno tempo, dobbiamo fare di più e dobbiamo farlo più in fretta. «Alcuni hanno accusato i ricercatori di essere allarmisti, di esagerare i pericoli» ci spiega Magnason. «In realtà sono molto cauti: i rapporti dell’Ipcc sono documenti prudenti, perché devono essere approvati da vari Paesi e ogni frase viene attentamente vagliata. Il fatto che in un rapporto dell’Ipcc troviamo affermazioni così forti è un segnale che dovremmo prendere sul serio».

Perché c’è questo negazionismo verso l’emergenza climatica?

Una delle principali ragioni è che il dibattito è politicizzato. Per capirne i motivi dobbiamo tornare agli anni Ottanta, quando le persone iniziavano a dare retta agli scienziati e ad agire basandosi sul loro lavoro. Ma il tema è stato dirottato dalle lobby che hanno cercato di erodere la fiducia nella scienza. Le compagnie petrolifere hanno investito miliardi di dollari per minare la comprensione scientifica della popolazione, per creare confusione. Così una persona è portata a credere che la questione sia scientificamente ancora aperta, che sia tema di controversie tra scienziati.

Quello che è stato fatto è stato prendere voci molto marginali, a volte anche voci estranee alla scienza, e le si è elevate al livello delle grandi organizzazioni scientifiche mondiali: la popolazione è stata deliberatamente confusa e questo anche da parte di alcuni movimenti politici. Penso che la storia condannerà tutto questo come una delle più grandi azioni malvagie dell’umanità e mi aspetto che, come adesso vediamo in tribunale chi ha commesso crimini di guerra, tra non molto verrà giudicato anche chi ha guidato questa campagna di disinformazione.

Si è costruita una controversia dove invece c’è un consenso condiviso.

Sì e il consenso si è ulteriormente rinforzato: gli incendi, le ondate di calore e gli altri fenomeni sono prove schiaccianti ed è sempre più difficile essere scettici. Ma è importante non limitarsi a creare paura: bisogna anzi insistere che è ancora possibile evitare gli effetti peggiori e che ogni cosa che facciamo è importante. Non dobbiamo pensare di aver perso ogni speranza, non è questo il messaggio del rapporto dell’Ipcc.

La paura non è quindi un buona strategia di comunicazione?

È una domanda per la quale non ho una risposta chiara e univoca. Perché la reazione normale di fronte ai dati è la preoccupazione e la paura. Preoccupazione e paura dalle quali deve seguire una reazione: bisogna agire come un pompiere, come un soccorritore, come l’autista di un’ambulanza: sanno che sta accadendo qualcosa di pericoloso ma non si fanno paralizzare dal panico e agiscono. Dobbiamo comprendere la situazione, comprendere quello che bisogna fare e agire di conseguenza. Perché in questo momento il nostro obiettivo principale deve essere evitare le conseguenze del consumo dei combustibili fossili.

Quello che vediamo però è che le persone non comprendono realmente la gravità della situazione: la reazione non è il panico, ma l’indifferenza.

Alla base di questa mancata comprensione, oltre come detto alle campagne di disinformazione, ci sono anche dei limiti cognitivi? Dopotutto abbiamo a che fare con fenomeni complessi.

Sì, è uno dei temi del mio libro: non si tratta solo di dati sul clima, ma di comprendere una nuova realtà, di ragionare usando nuovi concetti, nuovi paradigmi. Quanto ci è voluto perché la gente comprendesse che cosa sono la democrazia o i diritti delle donne?

È anche una questione generazionale: sono spesso i giovani a comprendere maggiormente le scoperte scientifiche, mentre gli adulti rimangono maggiormente attaccati alla vecchia visione del mondo. Penso che quando i ragazzi dei Fridays For Future potranno votare e inizieranno a lavorare le cose cambieranno, avremo finalmente delle misure efficaci.

A cosa è dovuto questo gap generazionale?

È una questione di comprensione della scienza e di percezione del tempo. Per una persona di sessant’anni è razionale che il proprio fondo pensione investa in una compagnia petrolifera che darà subito un profitto. Per un ventenne no, perché quando il ventenne andrà in pensione quella compagnia petrolifera avrà mandato in rovina il pianeta – oppure avremo cambiato politica energetica e quella compagnia petrolifera non farà più profitti.

La valutazione è completamente differente, quello che è razionale per una generazione è senza senso per l’altra.

L’esempio del fondo pensione parte da un assunto egoistico: si ragiona pensando a quel che è meglio per me. È difficile presentare in un dibattito pubblico il punto di vista di tutta l’umanità o dell’ambiente?

È vero, gli argomenti egoistici sono molto presenti ma la sfida che ci attende è così importante che abbiamo bisogno di entrambi i punti di vista, perché una cosa non esclude l’altra. E questo vale anche per le possibili soluzioni: ridurre i consumi e cambiare mentalità non esclude impiegare nuove tecnologie che possano aiutare a proteggere la natura.

Nel mio libro cerco di combinare entrambi gli argomenti, perché dove ci ha portato la “razionalità” delle università e dell’economia? Al collasso del nostro pianeta. Forse sarebbe più razionale considerare sacri i nostri fiumi e le nostre montagne: qual è la razionalità di minare le basi della nostra civiltà?

Cerco anche di sviluppare un nuovo rapporto con il tempo una relazione che sia personale: provate a calcolare fino a che anno vivranno le persone alle quali volete bene? I miei figli conosceranno e ameranno persone che probabilmente saranno vive nel 2150… Cerco di trovare nuovi argomenti, lavorando non solo con il linguaggio della scienza ma anche, ad esempio, su quello della mitologia.

Arte, letteratura, poesia possono aiutare a comprendere la situazione?

È quello che mi ha detto uno scienziato: i cambiamenti di paradigma non avvengono semplicemente perché qualcuno ha trovato una formula, ma perché nuove idee vengono filtrate e formulate attraverso l’arte, la letteratura, persino la musica.

Pensiamo a un termine come “acidificazione degli oceani”: credo che in questo momento sia l’espressione più importante del mondo perché indica il più grande cambiamento negli oceani da milioni di anni. Ma è un termine che le persone non incontrano nella letteratura o nella poesia, è un termine poco familiare, strano, difficile da usare. E noi siamo guidati dalle parole e dal linguaggio.

Quale rapporto c’è tra uno scrittore e uno scienziato?

Per leggere documenti come i report dell’Ipcc ci vuole un po’ di tempo per comprendere il gergo, per avere un’immagine generale dei contenuti, figuriamoci per avere un’opinione del documento e dei vari scenari presentati.

All’inizio ero un po’ intimorito, pensavo che toccasse agli scienziati parlare di scienza e che io, non avendo un dottorato in climatologia, non dovessi interferire in un campo che non conosco. Ma a Potsdam ho incontrato un ricercatore climatico che mi ha spiegato che è l’esatto contrario, che è mio dovere non solo comprendere, ma anche parlare, usare le mie abilità di narratore per raccontare la scienza come gli scienziati non sanno fare. Quel ricercatore ha poi fatto la revisione del mio libro, controllando le mie affermazioni e segnalandomi le ultime scoperte.

Ne abbiamo accennato: in questa attività di narrazione della scienza, quanto può essere utile la mitologia?

Molto. Innanzitutto è una questione di scala: il livello degli oceani potrebbe alzarsi di uno o due metri, è qualcosa che va al di là della storia umana, è qualcosa che è più vicino alla mitologia perché la mitologia ha luogo quando cambiano i fondamenti del nostro mondo, è il racconto di creazioni, distruzioni, di trasformazioni radicali.

Di fatto la mitologia è l’unico sistema che ho per rapportare il linguaggio di cui disponiamo alla scala degli eventi che stiamo per affrontare. I cambiamenti climatici non sono eventi normali, sono Prometeo, sono il vaso di Pandora, sono Mosé che divide le acque del Mar Rosso. Siamo degli dei tragici che discutono di come il nostro potere stia minando le basi del futuro dei nostri figli e nipoti.

Ancora: pensiamo ai ghiacciai che alimentano i fiumi da cui dipende la nostra esistenza: viene naturale spiegare il loro ruolo riprendendo il mito della vacca sacra dalle cui mammelle nascono fiumi di latte che dà la vita.

I miti ci possono aiutare a comprendere la scala temporale degli eventi che, come afferma nel libro, avvengono velocemente dal punto di vista geologico ma lentamente per l’uomo.

Sì. È la tragedia della nostra epoca: la nostra immaginazione non ci sostiene, riusciamo solo a pensare al prossimo anno o poco più in là e dobbiamo trovare un modo per connetterci con una diversa scala temporale.

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