Culture

Roberto Calasso, l'editoria come passione

Le sue narrazioni concepite come un ciclo, le scelte editoriali esclusive e grandi: un ricordo dell'editore di Adelphi, scomparso a Milano all'età di 80 anni.

Calasso in immagini Rsi del 1977 (Canale YouTube Adelphi)

Fiorentino, presto trapiantato a Milano, figlio di una madre che traduceva Pindaro e di un padre e un nonno professori universitari e bibliofili compulsivi, Roberto Calasso (1941-2021) pareva naturalmente avviato al mondo dei libri. Nel 1962, due grandi lettori, Luciano Foà e Boby Bazlen, gli avevano aperto la strada di Adelphi forse la più raffinata, elegante e culturalmente onnivora delle case editrici italiane. E da Foà e Bazlen aveva poi di fatto ereditato, e costruito, un catalogo editoriale che resta testimonianza di un’apertura culturale senza pari nel modo dell’editoria anche europea.

Anglista di formazione, dopo la laurea a Firenze con Mario Praz, Calasso era transitato attraverso le grandi culture antiche, imparandosi il sanscrito per leggere gli antichi testi vedici ma aprendosi contemporaneamente anche alle letterature antiche e moderne, perché - diceva - la letteratura è una sola. Come scrittore, era affascinato dai grandi miti antichi e nella resa attualizzata che ne proponeva, sempre dopo aver infinitamente letto ed essersi documentato, trovava motivazione anche alla sua scrittura a metà tra saggio e narrazione. Dal 1983 prendeva così origine una trilogia formata da La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia e Ka, e questi tre libri costituivano il preludio a un quarto intitolato semplicemente K., che verteva sulla figura dello scrittore Franz Kafka ossessionato, come è noto, da quella sua prima lettera del nome. Ma non inganni il passaggio dall’antica cultura indiana a quella greca e alla contemporaneità di Kafka, Nabokov o altri meno noti scrittori. La lettura di Kafka esprime nei confronti dello scrittore di lingua tedesca la stessa relazione che Le nozze di Cadmo e Armonia avevano con i miti greci o che Ka aveva con il mondo induista. Non è un caso che trattando di quello scrittore, che con Proust Calasso giudicava decisivo nel XX secolo, affiorasse un breve parallelo tra Don Chisciotte e l’Ulisse omerico. O che, nella grande epopea indiana del Mahabharata, immenso testo degli ultimi secoli prima di Cristo portato da Peter Brook al festival di Avignone nel 1985, Calasso riconoscesse ormai detto “tutto quello che c’è nel mondo”. Era la ricerca di una saggezza fuori del tempo e delle nazioni, in qualche modo archetipica, sulla linea di maestri che in questi ambiti l’avevano indubbiamente segnato come lo storico e antropologo delle religioni Georges Dumézil o lo studioso e folclorista James George Frazer. La prima trilogia si arricchì poi negli anni di altri libri dalle intitolazioni altrettanto allusive e raffinate. Quasi delle ‘cifre’ di un più lungo discorso, che includeva la pittura del più autentico “pittore della vita moderna” (Il rosa Tiepolo, 2006), l’artefice stesso del modernismo letterario e il rapporto decisivo con le immagini (La folie Baudelaire, 2008) o la mitologia che gli antichi proiettarono sugli dei (Il cacciatore celeste, 2016).

Calasso concepì la sua narrazione come un “ciclo” e l’omogeneità del suo discorso fu, a ragione, riconosciuta dal “Premio Formentor de las letras”, nel 2016. Fu anche l’ultima volta che lo vidi. In questo, colto umanista di vocazione mitteleuropea era – come si definì – “uno degli ultimi mitografi”, ma un mitografo documentato e preciso. “La letteratura è precisione, come la matematica”, diceva. Forse per questo non la concepiva senza molto studio e molte letture, che in tutti gli ambiti (si pensi al all’edizione che diede, nel 2014, dell’oggi attualissimo Spillover di David Quammen) l’occupavano per una buona metà della giornata. Pensava, credo, alla chirurgica ‘definizione’ del tema, che gli avrebbe aperto uno spazio nuovo nel panorama del già detto, ma altrettanto credeva nell’ approssimazione della parola letteraria alle cose, che è nella vocazione di ogni vero scrittore.

Come editore fece scelte esclusive e grandi, pari all’ambizione che riteneva decisiva per produrre buona letteratura e di cui oggi, a differenza che negli anni ’70 del secolo scorso, sentiva molto la mancanza. Ed ebbe anche grandi meriti nel promuovere scrittori come Chatwin o W.G. Sebald, divenuti famosi in pochi anni, o nel pubblicare, o a volte riprendere, le opere complete di autori molto diversi come Borges, Marai, Gadda, o dell’aristocratico Patrick Leigh Fermor (celebre anche per il sequestro del generale tedesco Kreipe durante la resistenza che combatté in Grecia). Di Fermor, a testimonianza di una frequentazione non soltanto letteraria, abitò durante un’estate la fascinosa casa di Kardamili nel Peloponneso. Amava autori e libri “unici”, cioè – spiegò in una intervista concessa a La Repubblica”per i cinquantanni della Casa editrice – “scritti da chi, per una ragione o l’altra, ha attraversato un’esperienza unica”. E certo la sua lo è stata, come editore, come scrittore e come uomo di cultura aperto all’anima del mondo, senza preclusioni di appartenenza, intento solo ad ascoltarne il fiato purché fosse vitale.

Che in questo amplissimo respiro culturale trovasse posto anche la saggistica del nostro più insigne italianista, padre Giovanni Pozzi da Locarno, con l’edizione dell’Adone di Marino (1988) e coi volumi La parola dipinta (1981), Sull’orlo del visibile parlare e Alternatim (1996) e con il suo estremo Tacet, è cosa che ci rende Roberto Calasso anche più vicino.

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