Culture

La fiducia nella parola poetica di Giovanni Giudici e Vittorio Sereni

‘Quei versi che restano sempre in noi‘: pubblicata la raccolta di lettere dei due grandi autori della poesia del Novecento

10 luglio 2021
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Già la foto di copertina riesce a produrre emozione e rimpianto. Vediamo infatti, sorridenti e in forma, due grandi della poesia del Novecento, e cioè Giovanni Giudici e Vittorio Sereni. E avendoli ben conosciuti come maestri, soprattutto, ma anche come veri amici, il rimpianto è forte, ma si aggiunge il sincero conforto di un’opera, quella di entrambi, che continua a parlarci, che, anzi, sempre di più ci appare originale, forte e necessaria. Il libro a cui mi riferisco comprende l’intero scambio epistolare, appunto, tra Giudici e Sereni: ‘Quei versi che restano sempre in noi. Lettere 1955-1982’ (Archinto, p.168, € 21), curato e introdotto da Laura Massari e con un bel saggio di Edoardo Esposito sul tema dei poeti a Milano.

Siamo alla felicemente ritrovata presenza di due figure tanto rilevanti quanto in fondo molto diverse tra di loro. E non solo per le diverse date di nascita (Sereni era del ‘13 e Giudici del ‘24), ma anche per la differenza evidente tra le loro opere, oltre che nel carattere, nel tratto umano. Una differenza che non esclude, peraltro, punti di contatto: essenziale quello della fiducia antiretorica nella parola poetica, ma non di meno nella sua necessità di muoversi dentro la realtà del tempo, conservando la pienezza della propria autonomia nella ricerca attiva.

Importante è cogliere in queste lettere la possibilità di uno scambio che non è certo essenzialmente di natura editoriale (Sereni era direttore letterario in Mondadori) , ma che coinvolge di continuo la riflessione sull’identità e sulla sostanza della poesia in periodi di straordinario fermento anche teorico. Nella maggior parte, queste lettere ci appaiono dunque come interventi di riflessione sulla scrittura e ha perfettamente ragione la curatrice quando ne sottolinea il carattere poco o niente privato, a vantaggio di una dimensione pubblica, aperta “a discussioni che il lettore non faticherà ad immaginare su riviste o quotidiani, talvolta persino in manuali o saggi critici”.

Qui viene necessario nominare proprio una speciale rivista dei primi anni Sessanta, “Questo e altro”, edita da Lampugnani Nigri, di cui è di recente uscita un’antologia a cura di Valeria Poggi (Stampa 2009,p.206, € 23). Una rivista alla quale i due poeti – con altre figure di rilievo oggi storico – parteciparono (Sereni, tra i promotori) e di cui parlano nel loro scambio di lettere, leggendo le quali veniamo riportati alla realtà culturale e letteraria di quei tempi. Una realtà ricca di incontri e discussioni: sulla sostanza, sugli strumenti e sugli orientamenti dello scrivere, del fare poesia; una realtà culturale tanto diversa da quella attuale, così appiattita sugli “affari” letterari e pochissimo aperta al confronto sui testi, indifferente rispetto al movimento delle possibili tendenze in atto o in progetto. Ammesso, comunque, che ce ne siano. In questo senso risulta interessante tornare anche all’epoca in cui si manifestavano le proposte della neo avanguardia, nel segno di una sperimentazione che fioriva a tutto campo, ma che in Giudici e Sereni – come appare nei loro libri e come è direttamente espresso nelle loro lettere – si svolgeva in modo decisamente diverso. Ed è comunque, pur nella sua normalità, poter leggere, in una lettera del ‘65, il chiaro apprezzamento di Giudici, il più giovane dei due maestri, all’uscita di un capolavoro come ‘Gli strumenti umani’, delle cui poesie scriveva: “dureranno come dura tutto ciò he non è surrogabile”. Decisiva quest’ultima parola, specie in un periodo come il nostro, dominato da surrogati culturali.

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