Culture

La poetica delle cose minime dei racconti di Paterlini

Recensione di Piergiorgio Paterlini, ‘Stanno smontando il mare e altri racconti’, Voland

26 giugno 2021
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Vi sono almeno due buoni motivi per salutare con piacere il nuovo librino (esce, appunto, nella collana dei “Libri Piccoli” di Voland) di Piergiorgio Paterlini: anzitutto, la possibilità di (ri)trovare racconti pubblicati anche molto tempo fa su rivista, e quindi di difficile reperibilità (sui ventidue pezzi complessivi, solo cinque sono del tutto nuovi e due quelli completamente riscritti); poi, l’utilità di avere tra le mani una sorta di “giornale di bordo” che contiene i materiali preparatori o gli sviluppi dei libri maggiori dell’autore reggiano. Tanto per cominciare, molti dei personaggi qui raccontati sono omosessuali, proprio quando il long seller ‘Ragazzi che amano ragazzi’ compie trent’anni; mentre col pezzo ‘Amore di un bullo’, in cui due adolescenti prendono di mira un compagno di internato con un pesante scherzo notturno, Paterlini sembra abbozzare il tema di ‘Bambinate’, dove torneranno anche la trattoria in riva al Grande Fiume (qui è nel secondo racconto) e, più in generale, le atmosfere della Bassa che l’autore ha da sempre nella penna e nel cuore. Luoghi di una poetica delle cose minime (“Guardo le alte fronde dei pioppi, ma non ne odo lo stormire di cui cantano i poeti. È un fatto di ancestrali radici, non di retorica”) che rivelano sempre un tratto che le sottrae al bozzettismo, o alle quali gettare uno sguardo sghembo e spiazzante, come nel caso del racconto in cui il protagonista scopre di essere proprio un pioppo, impietosamente condannato a un’eterna immobilità.

Paterlini ha da sempre piena coscienza della finitudine delle cose e della malinconia che accompagna le transizioni. Quella della domenica sera in cui un ragazzo riprende il treno per la periferia romana dopo un pomeriggio trascorso al bar con gli amici; o quella della fine dell’estate, al centro del racconto che dà il titolo alla raccolta, il cui protagonista è un esteta “del dopo”, uno che ai concerti rimane a guardare coloro che smontano il palco e al mare pare più interessato ai momenti settembrini, quando i bar e le gelaterie congedano i lavoratori stagionali e gli ombrelloni vengono riposti nei magazzini. E questo non tanto per snobismo misantropo o per un’elitaria ricerca di alterità, bensì come modo di vedersi nel mondo (“È che mi appassiona il ‘dopo’. Cosa succede quando tutti credono che ciò che c’era da godere sia finito. Per questo sono uno che ama la vita ma anche non vede l’ora di andarsene”). Non mancano pertanto i personaggi capaci di riflettere anzitutto sulla propria limitatezza, anche quando costringe a rivelare la scomodità di alcuni tratti personali: la maestra di una scuola serale odia i propri alunni perché troppo disciplinati, troppo desiderosi di apprendere (“Imparare la letteratura italiana. Ma che diavolo se ne facevano, poi? cosa gli era venuto in mente?”); un padre dichiara di non nutrire per il figlio tredicenne l’amore viscerale di cui parlano gli altri genitori (ma forse è proprio per questo che gli vuole bene). Fino ad una vera e propria critica all’antropocentrismo dal vago sapore leopardiano, ribadita attraverso la complementarità tra i due pezzi finali: un formicaio è bruciato da due ragazzini; una glaciazione incombe sull’insignificante formicaio chiamato Terra. Forme di finitudine significativamente mostrate anche dalla brevità dei racconti (alcuni di sole due pagine), a conferma che tutta l’opera di Paterlini, in fondo, è un coraggioso esercizio di confronto con la misura da dare al proprio testo.

Date queste premesse, qui il ricordo non è mai rimpianto, né reificazione di un passato che non potrà mai tornare, bensì gratitudine per avere vissuto ciò che si stempera nella dolcezza del ricordo, dagli amori perduti della giovinezza, alle nebbie padane che avvolgevano le case durante l’infanzia, spesso vista come una delle soglie che, in forma diversa, attraversano tutta la raccolta. Come quella che varca un bambino quando, davanti alla pagina strappata di un quaderno, prende per la prima volta coscienza dell’irreparabile (“Tutto si poteva sistemare, tranne il fatto che quella pagina non si fosse strappata”); o quella tra luce e buio (le cui variazioni, non a caso, scandiscono le sezioni del libro), ossessione di un uomo che ama viaggiare in treno di notte “per poter dormire finalmente non in una stanza morta, ma in un lunghissimo ventre sveglio e cullante”. Personaggi accomunati da una “cognizione del dolore” spesso da esorcizzare e anestetizzare, anche solo con la fedeltà a una borraccia ricevuta dal ciclista seguito ovunque durante la giovinezza, o attraverso le epiche partite al bocciodromo. Personaggi soli, come la donna raffigurata in copertina, ignara dell’onda che incombe alle sue spalle e rappresentata come un sipario, pronto, senza preavviso, a calare su di lei. E su tutti noi.