Culture

Zerocalcare spiega per bene la ‘cancel culture’

Ma soprattutto spiega che la 'dittatura del politically correct' è una balla, e come fare per cercare di essere costruttivi. Lo fa coi ‘disegnetti’, e senza spocchia

(Zerocalcare)
23 maggio 2021
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“Se tutti i giorni ti ripetono che viviamo nella dittatura del politicamente corretto, alla fine ci credi. A capo di questa dittatura c’è il feroce August@ Arcobalet, dispotic* unicorn* Lgbtq”. Giornalisti, intellettuali, artisti hanno pensato per mesi a come smontare la polemica iperconservatrice sulla cancel culture, ovvero la tendenza a escludere dal dibattito pubblico chi scriva o dica cose ritenute discriminatorie. Poi è arrivato il fumettista Zerocalcare e coi suoi “disegnetti” – così li chiama lui – ha colto tutto quello che c’era da cogliere. Una trentina scarsa di tavole pubblicate venerdì da Internazionale col titolo ‘La dittatura immaginaria’, per ricordare anche ai più distratti i punti salienti della questione.

Il primo è che dalle nostre parti – lui pensa all’Italia, ma il Ticino in questo le somiglia fin troppo – è ben difficile parlare di ‘cultura della cancellazione’. Non è vero che “non si può più dire niente”, come ripetono politici e opinionisti col tono scorbutico degli umarell davanti ai cantieri: se così fosse non avremmo una leadership composta (anche) da chi fa a gara a spararla più grossa. Matteo Salvini non incasserebbe comparsate e like scaricando gli annegati nel Mediterraneo “sulla coscienza dei buonisti”, né il Mattino insisterebbe con l’ammiccamento xenofobo dei “finti rifugiati con lo smartphone”. Ed è un esempio tra mille. Che poi costoro facciano liberamente le povere vittime del “politicamente corretto, frutto del dominante pensiero unico” – come berciava domenica il megafono leghista – basta a dimostrare quanto poco unico sia oggi il pensiero (con buona pace anche della sinistra, quando lamenta il “pensiero unico neoliberista”).

‘Non si può più dire niente’: mica vero

D’altronde, prosegue Zerocalcare, “niente tira di più di dire che non si può più dire niente”. Col paradosso che chi se ne lamenta “lo fa attraverso tutti i possibili canali mainstream, in un coro di consenso unanime”. Il fumetto non ci si sofferma, ma questa è di solito la meta di un percorso visto e rivisto, come nel caso del famigerato bacio a Biancaneve. Queste le tappe: i media americani più reazionari isolano una voce delirante ma assolutamente minoritaria del campo progressista (in questo caso, le due giornaliste del San Francisco Gate che pongono dubbi sul consenso della povera comatosa al principe); quell’opinione è falsamente presentata come dominante e destinata a imbavagliare la maggioranza silenziosa; i media italofoni – per un misto di sciatteria, inadeguatezza culturale e gusto infantile per la polemica – ripetono a pappagallo le stesse cose; ci cascano perfino i progressisti, spunta fuori un Enrico Mentana a paragonare cancel culture e roghi nazisti dei libri; alla fine il lettore distratto, che d’altronde nella vita ha altro da fare, si convince che davvero ormai si voglia censurare tutto, anche le fiabe. Ai tempi supplementari qualcuno prova a dire che no, “non è un cazzo vero” (cit.), ma nel frattempo sarà partita un’altra giostra polemica – appena ieri quella sulla serie tv ‘Friends’ “troppo bianca” – basata sullo stesso meccanismo a molla.

Il lavoro di Zerocalcare però va oltre, non rimane asserragliato nella casamatta progressista. Spiega cioè che sebbene una critica non sia sempre un tentativo di cancellare il prossimo, il rischio dell’eccesso esiste eccome. Chi lo nega – aggiungiamo noi – rischia di cadere in una rappresentazione tanto manichea quanto quella di certi reazionari: in America molti processi sommari hanno davvero portato alla messa al bando di artisti e personaggi pubblici. Altri interventi nel dibattito pubblico aspirano sì a difendere le minoranze e sfidare certi pregiudizi, ma si esauriscono in una sorta di indignazione autocompiaciuta e vittimista. C’entra anche la dinamica dei social, nella quale il giudizio sommario diventa un modo per dipingersi e perfino sentirsi migliori del prossimo: così rischiamo tutti di diventare “i Santi Licheri della morale pubblica” (il riferimento è al giudice dei finti processi trasmessi per decenni da Mediaset). Certe posture non contribuiscono all’evoluzione dei costumi e della sensibilità collettiva, rischiano di delegittimare i compagni di viaggio e cadono nella stessa trappola di chi difende acriticamente i ’bei tempi antichi’, magari in nome di tradizioni brutali o inventate.

Per ricostruire su queste macerie Calcare parte da una considerazione apparentemente banale, ma spesso oscurata dal nostro solipsismo sociale: “Senza il confronto con gli altri ci possiamo fare solo le pippe”, e prima di intervenire “uno si dovrebbe farequesta domanda: ‘sta cosa che sto facendo, aiuta le lotte?” “Aiutare la lotta” è la sintesi proposta da Zerocalcare, chiaramente di sinistra, ma tale da oltrepassare il suo mondo di centri sociali romani, l’eterna lotta tra ‘fasci’ e ‘zecche’. Nella consapevolezza, più forte di ogni polemica, che “sono gli automatismi, i ‘si fa così perché si è sempre fatto così, che nutrono lo status quo. Che fanno da tappo a ogni possibile cambiamento, in un momento della storia in cui c’è un sacco di gente che si è stufata di stare dalla parte sbagliata di quel tappo”. 

Il ‘fumettaro’

Da Rebibbia con candore

Zerocalcare, all’anagrafe Michele Rech, è nato nel 1983 e la sua parlata da borgataro romano dissimula une delle intelligenze (auto)critiche più fini d’Italia. Formatosi nei centri sociali della sinistra alternativa – costantemente perseguitati dai fascisti di Casapound, e a volte pure dalla polizia – ha pubblicato il suo primo libro nel 2011: si intitola ‘La profezia dell’armadillo’ e inaugura una lunga serie nella quale si intrecciano vita di tutti i giorni, lotta politica e animali fantastici. Tra le altre opere vanno ricordati almeno ‘Un polpo alla gola’, ‘Macerie prime’ e ‘La scuola di pizze in faccia del professor Calcare’, ma alla fine son tutti belli. Incluso il più ‘difficile’ ‘Kobane Calling’, reportage dal Rojava e accorata difesa dell’esperimento politico curdo (quello che una parte della sua stessa sinistra ritiene pericoloso separatismo). Ha realizzato anche dei cortometraggi animati visibili sulla sua pagina Facebook e su YouTube, e ora sta preparando una serie tv per Netflix. Ha sceneggiato il film tratto dal fumetto ‘La profezia dell’armadillo’, presentato al festival del cinema di Venezia. Perseguitato dall‘insonnia, ma anche dal successo: “Il fatto che mi legga tanta gente, a me che per natura mi faccio un sacco di pippe mentali, mi condiziona un sacco”, ha detto a ‘Vanity Fair’. “Mi pongo il problema di essere più comprensibile, didascalico, non dare per scontato che le persone sappiano già di che cosa sto parlando, non lasciare ambiguità. Ci sono invece degli aspetti che non voglio siano toccati dall’idea che mi leggono in 100mila. Per esempio il non retrocedere dalle mie posizioni politiche. Ci sono persone che mi scrivono: ‘Se la pensi così non ti leggerò mai più’. Pazienza. Non posso tradire me stesso e la mia comunità di appartenenza”.

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