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'To Fabio Andina, Peace and Love, Lawrence Ferlinghetti'

Gli incontri del romanziere ticinese con l''ultimo esponente della Beat Generation. Era il 1998, gli anni degli studi in California. Ecco come andò...

‘All’improvviso, la Beat in persona’
25 febbraio 2021
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Potremmo scrivere questo articolo senza punteggiatura in omaggio ai due protagonisti ma non siamo Jack Kerouac e se c’è uno che sa fare questo molto bene quello è Fabio Andina. È di Fabio Andina, infatti, che parliamo – riprendendo l’uso di punti e virgole – e dei suoi incontri con Lawrence Ferlinghetti, l’ultimo grande nome della Beat Generation, vivente sino a due giorni fa, in quanto spentosi alla veneranda età di 101 anni nella sua casa di San Francisco. Giusto il tempo di affidare il racconto in prima persona della sua vita a ‘Little Boy’, libro uscito in occasione del suo centesimo compleanno. «Ha fatto una vita pazzesca, compresa la guerra», ci dice Andina da Leontica, «dove fa un caldo boia e due settimane fa faceva un freddo becco. Le stagioni sono strane». Andina lo ha conosciuto bene Lawrence Ferlinghetti, dal cognome bresciano dal padre morto prima che lui nascesse; il Ferlinghetti dall’infanzia trascorsa tra Strasburgo e New York, dalla madre rinchiusa in un manicomio e una zia a farne le veci; il Ferlinghetti arruolato nella Marina degli Stati Uniti d’America durante la Seconda guerra mondiale, poi laureato alla Sorbona, poi tornato a Ovest a vivere la San Francisco della Summer of love e della rivoluzione hippy, a fare il critico letterario e ad aprire la sua casa editrice, la City Lights che pubblicò Kerouac, Ginsberg, Burroughs e O’Hara. Sì, ha fatto una vita pazzesca, «eppure è riuscito a campare cent’anni».

‘All’improvviso, la Beat in persona’

Fabio Andina, che la Beat l’ha applicata anche al racconto di montagna – ‘La pozza del Felice’, è noto, è romanzo on the road con la sola differenza che le road sono quelle della Val di Blenio – ha vissuto in California tre anni per laurearsi in (testuale) “Cinema con l’enfasi in scrittura della sceneggiatura”. «Tutto della mia scrittura e della mia passione per la letteratura è nato con la Beat Generation. Fino al mio arrivo a San Diego, nel marzo del 1995, la mia prima tappa americana, non avevo mai letto un romanzo». Merito, nel primo semestre di studi californiani, di un insegnante che puntava proprio sulla Beat «facendomela amare, come letteratura ma anche come musica, da Jim Morrison a Lennon, da Dylan a Charlie Parker, a pittori come Jackson Pollock, tutto quello che poteva definirsi spontaneità, improvvisazione. Proprio stamattina – aggiunge Fabio – pensavo che personaggi così mostruosamente importanti sono entrati nello stesso ufficio in cui io incontravo Ferlinghetti, un posto polveroso, sommerso da libri. E il solo pensiero, oggi, mi fa accapponare la pelle».

L’incontro con Ferlinghetti, appunto. «Trascorsi il capodanno del 1998 in un motel per camionisti; l’affitto a San Diego scadeva, la scuola a San Francisco sarebbe iniziata di lì a venti giorni, così, dal giorno dopo, mi feci andare bene una stanzaccia di un ostello di Chinatown, a un tiro di schioppo dal City Light Bookstore», libreria poi casa editirice fondata nel 1953 da Ferlinghetti e Peter Martin, ritrovo della Beat Generation. «Mi svegliavo la mattina, scendevo al Vesuvio Cafe – altro luogo di storia Beat – e me ne stavo al City Lights. E alla fine l’ho incontrato». Nel giugno dello scorso anno, Andina aveva affidato alla Neue Zürcher Zeitung (Nzz) il suo ricordo di Lawrence Ferlinghetti per i cent’anni dalla nascita. Attingiamo da lì per dire di quando, il terzo lunedì di gennaio, nel Martin Luther King Jr. Day, nel bel mezzo della lettura, Ferlinghetti scende da una rumorosa scala e “all’improvviso, la Beat in persona – allora 79enne, ndr – mi si siede di fianco”, scrive Andina. Andina che si presenta, e il giorno dopo, al Vesuvio Cafe con Ferlinghetti ci prende un caffè, «o altro che non ricordo»; gli chiede di Jack Kerouac, del suo scrivere a flusso, e Ferlinghetti gli risponde che “basta scrivere quel che detta la mente senza mai fermarsi per rileggere” e che, a questo proposito, la leggenda sul rotolo di carta infilato nella macchina da scrivere per restare seduto a schiacciar tasti il più a lungo possibile non era leggenda, ma verità.

E poi Ferlinghetti che s’interessa agli scritti del ticinese, e il ticinese che gli consegna cento fogli con dentro trecento poesie: «Come voltava le pagine, la mia testa iniziò a girare. Immaginai le persone passate proprio da quell’ufficio. Vidi Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Borroughs e compagnia”. E tutta l’arte varia annessa e connessa. I ricordi sono tanti e includono il non ancora trentenne studente di cinema seduto a un tavolo con lo stesso Ferlinghetti e l’allora 64enne Diane Di Prima, morta lo scorso ottobre.

Prima delle stregonerie

Tornando a oggi. «La posizione del City Lights e del Vesuvio Cafe – ci dice Andina – quei sì e no dieci passi tra porte d’ingresso, quel mondo racchiuso in quei trenta metri quadrati, era una bomba. Da lì transitò parte della storia del mondo. Qualcuno è ancora in vita come Dylan, altri non ci sono più. E tutto è ancora com’era al tempo, edifici spartani, interni con le sedie spaiate, tante fotografie appese ai muri con le foto di tutti. Un museo, più che un caffè, e più che una libreria». A pensarci adesso, «oggi, probabilmente, sarebbe più facile incontrare qualcuno del suo calibro; si potrebbe cercare un indirizzo e-mail e scrivere due righe. Ai tempi dovevi andare alla ricerca della persona fisica, ma senza particolare frenesia: se ci penso, trascorsi i primi 15-16 giorni passando ore e ore a leggere libri al City Lights. Oggi ci si muoverebbe solo previa certezza dell’incontro». In quegli anni «senza Whatsapp, senza stregonerie, incontravo Ferlinghetti quando ci s’incontrava, cioè per caso. Se per caso andavo al Vesuvio e lui c’era, si chiacchierava; se andavo al City Lights e rimanevo una mezza giornata, si chiacchierava. Successe altre volte, anche in giro per la città, ma soprattutto in quei posti. Era bella l’attesa, quel sapere che, se proprio non sarebbe stato oggi, poteva essere domani».

Così termina il ricordo di Andina alla Nzz: “Una sera, alla chiusura, presi dalla dispensa girevole del City Lights una cartolina e gli chiesi di autografarmela. Ritraeva Allen Ginsberg, Peter Orlovsky, Jack Kerouac e William Burroghs in una spiaggia di Tangeri nel 1957. La guardò con occhi melancolici. Kerouac se n’era andato nel’69. Ginsberg e Burroghs erano morti da tre anni. Il solo Peter Orlovsky era, allora, in vita. Pescò dalla tasca dei pantaloni una matita e scrisse una dedica. To Fabio Andina, Peace and Love, Lawrence Ferlinghetti”.

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