Culture

L'arte extratemporanea di Fausto Tommasina

I suoi 'Pastelli' nella bella e intensa mostra al Museo Mecrì alle Mondacce di Minusio.

Westerpark, 2019 (pastello su carta Canson 41,5 x 61 cm)
11 dicembre 2020
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Chi conosce Fausto Tommasina non può non ritrovarlo nella sua arte; chi invece ne conosce solo l’arte, quella gli dirà molto di lui. Sta in questa coerente e duratura fedeltà a se stesso la verità dell’arte di Tommasina: che non si cura di correr dietro a mostre ed esposizioni, che non insegue la novità dei linguaggi e neppure il successo economico, ma cui bastano un tempo e uno spazio per dipingere, per ritrovare se stesso nelle forme, nei toni e colori delle sue pitture. Lo si vada a vedere nella bella, ma direi anche intensa mostra, che il Museo Mecrì gli dedica, alle Mondacce di Minusio, appena sopra Tenero. Questa volta non si tratta però di pitture, bensì di soli pastelli, per di più di piccolo-medio formato, ma di vera bellezza e di raffinata qualità.

E che coinvolgono subito, a partire da quel delicato dichiarato omaggio a Giorgio Morandi che ti trovi a sinistra appena entrato: con le sue case, i suoi vecchi muri che “sorgono sempre attorno a uno spazio vuoto, a volte colmo di nostalgia. Una pittura che a volte sembra fatta di niente…  eppure si tratta di opere d’arte assolute e come tali di una solitudine infinita”. Sto citando, anzi saccheggiando liberamente, dalla breve scheda che accompagna l’opera, scritta dall’artista stesso: sì perché questa volta Tommasina non espone solo quadri, ma espone anche se stesso condividendo pagine del suo quaderno d’arte con il visitatore. Come dice la parola, ogni mostra è sempre anche un mostrare in pubblico una parte recondita di sé; questa lo è ancor di più proprio per il fatto che inizia, al pian terreno, con una dichiarazione circa i suoi veri maestri cui rende omaggio riprendendone una o più opere, accompagnate per di più da brevi commenti. In questo modo egli non svela solo la costellazione dei referenti artistici che lo hanno nutrito, umanamente e artisticamente, ci dice anche di cosa e come lo hanno nutrito, ciò che ha sentito o ritrovato in loro.

Omaggi

C’è una citazione che egli fa sua e riporta in apertura dell’ultima sezione del catalogo, quella appunto in cui vengono riprodotti “Omaggi e d’apres” con le relative sue notazioni. Ed è citazione illuminante per capire le ragioni profonde di questo suo ininterrotto colloquio con tali maestri: da Brueghel a Ruisdael a Rembrandt, da Constable a Turner, da Calame a Mondrian. Dice: “Noi non siamo del luogo in cui siamo nati, ma di quello  che ha catturato il nostro sguardo”: sono parole di Maria Zambrano, filosofa e saggista andalusa. Cui egli fa seguire queste altre sue parole: “Ci sono dipinti, veri e propri luoghi dell’anima, che m’incantano: luoghi di dove vorrei essere e in parte, forse, sono; immagini che hanno ‘catturato il mio sguardo’ e mai negli anni hanno cessato di chiamarmi a loro.”

Dopo il richiamo ai maestri, ai piani superiori della mostra seguono anche altri soggetti che hanno catturato il suo sguardo: cieli infiniti, grandi nuvole scompigliate dal vento, luci del tramonto e cieli stellati, alberi ed acque, paesaggi silenti illuminati talvolta dal chiarore notturno della luna. La quale altro non è che un satellite orbitante attorno alla terra, ma che per il poeta come per il pittore o qualunque altro uomo può anche racchiudere tutto il mistero del mondo e l’incanto di una notte: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai,/ silenziosa luna?” In sé le cose sono quel che sono, ma quel che dicono o smuovono dipende dalla cassa di risonanza e dalle corde che ciascuno ha dentro di sé: ognuno vede quel che sa, ognuno sente quel che è. I pastelli di Tommasina  sono vere e proprie “pitture dello sguardo” che si attengono al visibile ma non si fermano lì, portano l’osservatore fin su una soglia e poi lo lasciano lì.

Il mistero della vita

Le sue notazioni in mostra o nel bel catalogo, sempre molto personali e non mai professionali o professorali, pur nella loro brevità sono ricche di spunti, di considerazioni, di giudizi e riflessioni;  ma anche di memorie personali che gettano più di una luce sulla sua pittura: “Come quando da bambino, con una malinconia nel ventre, cominciava la primavera e i ciliegi, i pruni, i meli e gli alberelli di pesco fiorivano. Allora mi prendeva una gioia inquieta mista a tristezza per una bellezza che mi sfuggiva, che mi oltrepassava, sovrastandomi. Non sapevo allora che era il mistero della vita stessa a sfuggirmi.” O quest’altra: “Per mia natura ho sempre prediletto i dipinti di piccolo formato, più intimi e silenziosi; ho sempre preferito la musica da camera alle grandi composizioni sinfoniche.”

Pittura vecchia? Non al passo dei tempi? Andatela a vedere. L’esposizione al Mecrì è un intimo viaggio nello spazio che però butta tra i piedi dei visitatori questa intrigante domanda cui ciascuno risponderà come meglio crede. Lui, Tommasina, risponde con le sue opere, e poi con due semplici frasi finali: “Non mi è mai interessato molto di essere moderno, per quanto mi concerne la vera arte è sempre extratemporanea”, nel senso che trascende il tempo e tocca corde che da sempre risuonano nell’animo umano. “Perché la pittura, come ogni arte, è sogno realizzato.”

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