La recensione

William Walton, chi era costui? (l'Osi torna al LAC)

L'Orchestra della Svizzera italiana, in forma smagliante e duttile al gesto di Markus Poschner, di nuovo in sala

(Patrick Hürlimann)
4 ottobre 2020
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Non so se la nostra orchestra ha già eseguito altre volte il concerto per viola di Walton, nemmeno ricordo d’averlo già ascoltato dal vivo, e mi sembra condivisibile l’opinione che la sua fortuna sia anche dovuta al non sovrabbondante repertorio per viola concertante disponibile. William Walton (1902-1983) lo compose nel 1928 e fu Paul Hindemith, gran violista, a curarne la prima esecuzione a Londra nel 1929. Impiega un’orchestra ricca, nei legni ci sono anche il clarinetto basso e il corno inglese, gli ottoni con corni, trombe, tromboni, poi c’è un’arpa. La scrittura è meticolosa, usa con equilibro tutte le sezioni, mette in gioco molte prime parti e dà costante risalto alla viola solista. Ma non mostra alcuna urgenza d’allagare i confini della tonalità. E questo è un limite giustificabile appena con la temperie artistica di quegli anni, che hanno visto le clamorose ricadute neoclassiche di Stravinski e di Picasso.

Markus Poschner ne ha offerto una lettura analitica splendida, ha assecondato la vena drammatica, mai patetica del solista Nils Mönchemeyer, che sa trarre dalla sua viola pronuncia e colori seducenti in ogni registro. Il pubblico con mascherina e limitate possibilità di ovazioni ha richiamato Mönchemeyer fino ad ottenere un bis di soli 50 secondi, scelto tra i 44 duetti per due violini, che Béla Bartók pubblicò nel 1931, poi trascrisse per altri strumenti: era l’Allegro moderato, che porta il numero 31, e l’ha eseguito con Ivan Vukčević, prima viola dell’orchestra.

Il programma si completava con ben quattro ouverture di Giuseppe Verdi, dal Nabucco, dallo Stiffelio, dai Masnadieri e dalla Forza del destino. Un’immersione, insolita per un concerto sinfonico, nel repertorio operistico popolare, forse per ricompattare l’orchestra dopo il lockdown, portando in scena quasi sessanta strumentisti: gli archi rinforzati sulla base di quattro contrabbassi, le due arpe richieste dalla Forza del destino, tre percussionisti in aggiunta al timpanista, poi la tuba filologicamente sostituita da un cimbasso, strumento preferito da Verdi, forse perché la tuba aveva origini austriache, ma anche per contribuire con asprezze timbriche al cipiglio eroico della sua musica.

L’Orchestra della Svizzera italiana, nonostante la lunga pausa, è apparsa già in forma smagliante, sempre più duttile al gesto di Markus Poschner, che non comanda, ma rammenta e commenta. Il distanziamento sul palco, il leggio singolo per ogni arco, sembrano aver migliorato la qualità del suono. Forse perché ogni strumentista si sente maggiormente primus inter pares e anche gli unisoni più perfetti lasciano trasparire meglio il timbro di ogni strumento.

È un grande elogio, forse il succo del lungo, interminabile applauso ritmato, col quale il pubblico imbavagliato ha congedato l’orchestra.

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