laR+ L'intervista

'Il cinema deve scuotere, non rassicurare'. Come in 'Favolacce'

Dall'8 ottobre nelle sale la splendida 'favola nera' di Fabio e Damiano D’Innocenzo, Orso d'Argento 2020 alla sceneggiatura. Abbiamo incontrato Fabio.

Fabio (dx) e Damiano D'Innocenzo (Keystone)
3 ottobre 2020
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“Che bel film, ho pianto tutto il tempo” (soprattutto alla fine). La frase è un po’ datata. Oggi che tutto è classificazione, ‘Favolacce’ dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo potrebbe andare sotto la categoria “Most disturbing film” insieme a un paio di storie del greco George Lanthimos e a tutti quei film per chi dal cinema vuol essere trattato male, perché solo così riesce a pronunciare la parola ‘capolavoro’. Quel che accade in ‘Favolacce’ è un lento, fastidioso, poetico, disperato, bellissimo, crudele avvicinarsi all’irreparabile ambientato nella Spinaceto dei ‘nuovi adulti’, non troppo ricchi e nemmeno troppo poveri, ritratti (e infine smascherati) in tutto il proprio vuoto esistenziale dai relativi figli. Spinaceto a sud di Roma; Spinaceto “pensavo peggio! Non è per niente male!”, nel caustico ritratto di Nanni Moretti in ‘Caro diario’. Nella calma apparente di quella che si è definita, correttamente, una ‘favola nera’, scorrono l’inadeguatezza, l’indifferenza, la passività degli adulti e, degli adolescenti, l’infelicità che muta in rabbia, composta e silenziosa. E dai personaggi, dopo cento minuti, torna difficile separarsi.

Incontrare uno solo dei gemelli D’Innocenzo risolve il serio problema di riportare le risposte di entrambi i registi ricordandosi chi dei due le ha date. C’è il solo Fabio al Grotto Valletta non lontano dal Lux, teatro (anzi, cinema) della prima ticinese di un film in sala a partire dall’8 ottobre. Film da ricordarsi intanto quale ultima co-produzione di Tiziana Soudani prima di lasciare il set della sua esistenza terrena; film da ricordarsi per l’Orso d’Argento a Berlino 2020 alla miglior sceneggiatura (si aggiungano anche cinque Nastri d’Argento e altre cose). A Berlino, i D’Innocenzo ci avevano già provato due anni prima con ‘La terra dell’abbastanza’, per poi collaborare alla stesura di ‘Dogman’ di Matteo Garrone e garantendosi per questo l'uscita dall’escape room della gavetta, o la conclusione di quella che i gemelli chiamavano ‘La sinfonia di no’, quella dei ‘le faremo sapere’.

Fabio D’Innocenzo, si può dire che i “Le faremo sapere” adesso sono solo un brutto sogno?

«Sì. Ce la siamo rimbalzata un po’ la ‘Sinfonia di no’, perché era una definizione che suonava bene. Adesso siamo noi quelli che, paradossalmente dicono, ‘Le faremo sapere’, ovviamente in maniera meno formale, meno distaccata. Tanti ragazzi ci chiedono la nostra opinione sui loro scritti e noi tentiamo in tutti i modi di fare il contrario di quello che è stato fatto con noi, ovvero garantire un confronto tra chi il cinema lo sogna e chi già riesce a realizzarlo. Che in fondo era quello chiedevamo anche noi: non soldi, non un aiuto concreto, ma un dialogo, un poter spiare dal buco della porta. È importante per i giovani che si apprestano a fare questo lavoro, ed è importante anche che ci si abitui a trovare il giusto equilibrio tra quella che è spesso la mancanza d’interesse da parte di chi i film li produce, perché magari lo sguardo è pigro, e chi le storie le scrive senza venirne venga condizionato. Ed è fondamentale che si punti sempre in alto, perché giocare al ribasso è molto facile ed è anche, purtroppo, molto redditizio.

I D’Innocenzo non sono il prodotto delle scuole di cinema e ne vanno molto fieri.

È esatto. Non proveniamo dal cinema, cosa che ci ha portato tanti svantaggi e qualche vantaggio, primo fra tutti il non dover frequentare quei terribili vizi e quegli improcrastinabili retaggi di quando si viene indottrinati verso il linguaggio cinematografico secondo le accademie. Per noi rasenta la blasfemia l’idea che si possa insegnare un’arte così peculiare e così soggettivistica. Ognuno ha il suo modo di vedere il mondo e quindi d’interfacciarsi poi con attori, collaboratori, produttori per realizzare le proprie storie. Non c’è una formula che funziona sempre. Credo che l’importante sia fare emergere la propria sensibilità anche a discapito di alcune asprezze, di certe fragilità che possano esserci, e che non ci si nasconda mai da ciò che si vorrebbe essere in quanto regista. Anch’io ho il mio modello di regista perfetto, che è Fassbinder, ma non posso dire “Faccio lui”, perché diventerei come i personaggi di ‘Favolacce’, che invece di ricoprire semplicemente, e bene, il ruolo genitore si limitano a recitare il ruolo del padre e della madre perfetta. La perfezione non va inseguita, bisogna abbandonarsi al fatto che, essendo umani, siamo destinati al fallimento, cosa mai soltanto negativa ma a volte molto affascinante, e che può produrre negli altri l’interesse, anche scambiabile per successo.

Spero di spiegarmi: ‘Favolacce’ mi ha fatto stare male, ma nel senso buono.

Quello di ‘Favolacce’ è un copione che nasce a 19 anni, applicando quel criterio che, nel tuo caso, ti ha coinvolto così emotivamente, ovvero la voglia di creare un’esperienza audiovisiva simile a uno scossone fisico. Per noi il cinema deve scuotere e non rassicurare, deve portare a farci domande, a farci sentire anche scomodi nel nostro ruolo di esseri umani. Quando avevamo 19 anni avevamo grande rabbia per quanto visto nella vita e volevamo trasmetterla con una ribellione simile a quella messa in atto dai bimbi nel film, in silenzio, con educazione e una sorta di grazia. Provenendo dalla strada, sarebbe potuto uscire ben altro. E invece abbiamo scelto la strada della cultura, strada preziosa.

L’hanno definito ‘perverso’. Avete raccontato la periferia ne ‘La terra dell’abbastanza’ e adesso la provincia, che per drammaticità, se differiscono, è soltanto nei particolari.

Siamo nati in periferia e poi siamo emigrati nella provincia, le conosciamo entrambe. Sono una trappola. Uguali da un certo punto di vista, con tonalità e un respiro differente dall’altra. La provincia è qualcosa di molto subdolo, che arriva sempre senza mai bussare alla porta. Le tragedie che si consumano in periferia sono diverse da quelle che si consumano in provincia, la periferia è più roboante, più dichiarata, più manifesta. La provincia, invece, è più silenziosa, più rarefatta e quindi più letale, come tutte le cose che non mostrano avvisaglie della minaccia. Il film, come hai riportato, è perverso nella misura in cui è l’espressione di tante contraddizioni che appartengono al nostro essere umani.

Questa periferia e questa provincia, quelle di oggi, spaventano anche chi le racconta?

La paura, per quanto riguarda me e mio fratello, deriva da altro. Nel mio caso, in quanto sociofobico, è andare a comperare il pane la mattina. La vita, in realtà, tento di affrontarla sempre con uno sguardo antropologico sul perché, seppur comprendendo alcuni errori, continuiamo a reiterarli. Mi affascina questo circolo vizioso dell’incapacità di riscattare i nostri fallimenti, e penso che la risposta stia nella pigrizia di pensiero, nell’impossibilità di possedere una reale emancipazione di sguardo. E per questo, quando giriamo un film passiamo molto tempo a ridere. La tragedia che mettiamo in scena, in fondo, è sempre goffa e imbarazzante, non si prende sul serio. Anche se può sembrare un paradosso.

‘Favolacce’ non è solo Bruno e Dalila, l’inadeguatezza degli adulti, ma anche la sensibilità di Viola, l’equilibrio di Geremia nella totale assenza d’equilibrio generale…

Provo empatia, mi sento molto vicino ai bambini perché riconosco dei tratti caratteriali simili ai miei e a quelli di mio fratello Damiano. Non nego però di riconoscermi anche in alcune storture degli adulti, perché a 32 anni non posso più definirmi un bambino. I personaggi che hai citato hanno un forte dialogo interiore e riescono a far fruttare la propria sensibilità a discapito dei genitori che, invece, quella sensibilità vorrebberlo sotterrarla, ridurla a brandelli, a modelli comportamentali derivati dal terribile ventennio berlusconiano vissuto in Italia, procrastinatosi con Salvini. Credo comunque di provare, anche verso i personaggi negativi, una compassione. Nel senso che comprendo i loro sbagli, riuscendo allo stesso tempo a trarre un giudizio ovviamente negativo. La compassione viene dal fatto che spesso siamo in grado di comprendere le trappole che ci vengono messi davanti, ci danno gli strumenti per eluderle, e invece ci finiamo dentro quasi per inerzia. Credo sia il destino dell’essere umano il non riuscire a trasformare gli errori degli altri in catarsi. Il film inzia e finisce con una tragedia, ma una tragedia che non porta a un riscatto morale, a una maggior consapevolezza. I personaggi restano ciechi anche alla più grande delle tragedie. Questo legittima il nostro personalissimo modo di vedere il mondo, con un pessimismo che definirei compassionevole, inclusivo. O meglio, giudichiamo i personaggi così come giudichiamo noi stessi, con la stessa forma di sana spietatezza.

Sia in ‘La terra dell’abbastanza’ che in ‘Favolacce’ c’è Max Tortora, che pare il vostro Mastroianni…

Non conoscevamo Max Tortora nemmeno come comico, in quanto non possediamo la televisione, avendo Max, noto in Italia per le imitazioni, un background più televisivo e radiofonico. L’abbiamo scoperto nella fase dei provini e ci siamo innamorati della sua vulnerabilità e del suo non nascondersi. In questo lo troviamo molto simile a quello che è il nostro modo di intercettare i lati più importanti della vita, non mascherarsi e non fingere ciò che non si è. Èestremamente abile. Spesso gli attori comici vengono confusi con professionisti delegati soltanto alla risata. Ma ridere scaturisce sempre da una lettura del mondo più articolata. Io non rido per la volgarità o la stupidità delle gag. A me la risata fa pensare a quanto in fondo siamo inadeguati al quieto vivere, e in questa inadeguatezza c’è un bacino d'idee molto profondo che Max sa navigare molto bene.

L’intervista dei miei sogni ve l’ha già fatta Francesco Alò, facendo incetta di aneddoti quali voi dietro a Sorrentino davanti a un bancomat. Possiamo avere un aneddoto anche noi, meglio se inedito?

Me ne vengono in mente tanti. Alcuni sono anche molto positivi. Tanti registi pensavano che noi non fossimo realmente gemelli, ma una persona che cambiava identità a seconda del momento o per avere una seconda chance.

Perché vi vedevano in due momenti diversi?

No, anche solo perché spesso il rapporto era meramente epistolare, ed essendo noi per molte persone soltanto due nomi scritti con uno stesso cognome, quelle persone pensavano che dietro ci fosse una persona sola, e quindi pretendevano la nostra foto assieme. So che è abbastanza ridicolo ma la gemellanza, oltre che profonda, è di per sé una cosa molto divertente. La domanda che ci fanno più di frequente è come si lavora in quanto gemelli, e non conoscendo come sia il contrario non saprei proprio dirlo. Però, rispetto a chi affronta questo lavoro singolarmente, e te ne parlo oggi che sono qui da solo a fare questa intervista, per me è tutto più divertente, c’è una complicità maggiore, qualcosa che travalica l’atto di fare cinema e raggiunge quella bellissima cosa che è la vita e le sue contraddizioni.

Quindi il fatto che su Wikipedia siate un’unica voce non vi disturba…

Va benissimo così.

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