Poesia

Al parco con Laura Accerboni, fotografando l'inferno

'Acqua acqua fuoco' (Einaudi) è la più recente raccolta di poesie. Mercoledì 19 agosto a Bellinzona, per Babel TESS dentro ‘Incontra uno scrittore al parco’.

Mercoledì 19 agosto alle 18.30, alla Biblioteca cantonale di Bellinzona
18 agosto 2020
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Genovese di nascita, luganese d’adozione, oggi ginevrina. Bellinzona accoglie Laura Accerboni insieme ad ‘Acqua acqua fuoco’, raccolta di poesie edita da Einaudi e che fa seguito a due precedenti raccolte, ‘Attorno a ciò che non è stato’ (Edizioni del Leone, 2010) e ‘La parte dell’annegato’ (nottetempo, 2016). L’iniziativa si deve a Babel TESS, da vedersi all’interno del ciclo ‘Incontra uno scrittore al parco’, promosso e organizzato dalla Divisione della cultura e degli studi universitari insieme alle quattro Biblioteche cantonali e con i patrocini delle Città di Bellinzona, Locarno, Lugano e Mendrisio. L’incontro con Accerboni, in colloquio con Alessia Peterhans (Babel TESS) e Stefano Vessere, è fissato per mercoledì 19 agosto alle 18.30.

L’inferno è qualcosa in più delle ‘Macerie’, citando un altro dei suoi titoli. ‘Ho fotografato l’inferno, è sempre a fuoco perfetto’, si legge in copertina: è la sua definizione di questo libro?

La poesia che ho scelto come copertina introduce quello che si trova nel libro. La presenza dell’inferno, intimo e storico, in cui ci muoviamo, che da sempre brucia, funzionale a un determinato sistema e la fotografia, la messa a fuoco di questo 'punctum' che si dà immobile allo sguardo (e qui forse agisce la fotografia-collage dell’Inferno di Rauschenberg). Un esempio è dato dalla poesia intitolata 'Genova, Agosto 2018': è un testo dedicato al crollo del Ponte Morandi, ma che ho scritto solo dopo molto tempo (quasi un anno). Mi ricordo che pochi giorni dopo il crollo ero stata contattata per partecipare a un’antologia dedicata alla tragedia: ricordo di non aver dormito una notte, la tensione e il dolore erano talmente forti che non potevo scrivere. Ma un’immagine continuava a tornarmi in mente (insieme ai frammenti di cronaca, i pezzi di cemento, il camion della Basko sull’orlo): l’opera di Alberto Giacometti 'Uomo che cade'. Si tratta di una scultura in bronzo, un uomo sottilissimo, dalle gambe e braccia molto lunghe, fragile, colto nel momento in cui sta per cadere: i piedi sono sospesi, un braccio è teso in avanti come per provare ad aggrapparsi a qualcosa. Ecco questa caduta perenne, immobile, che racchiude tutti gli orrori della storia, costituisce il centro del libro.

La sua poesia è intrisa di cronaca quotidiana. Cosa la colpisce, quale necessità la spinge a scriverne?

Molte delle poesie presenti nascono da episodi di cronaca – come già accadeva nel libro precedente. A muovermi sono sempre i versi del poeta romeno Eugen Jebeleanu ('Incontro con Hiroshima'): la Storia si rivolge alla Poesia e le dice “Amico vieni, guarda quello che accade, quello che trovi e racconta”. È da qui, è a partire da questo racconto che prende avvio la mia ricerca di qualcosa di altro, di qualcosa che – citando Calvino – “non è inferno”.

Da ‘La parte dell’annegato’ a ‘Acqua acqua fuoco’: l’acqua è elemento che torna nella sua scrittura…

L’acqua è sempre stata centrale. Ci sono i versi di due poeti che amo molto e che in qualche modo si completano a vicenda: “Temete la morte per acqua” di T.S. Eliot e “Che Dio ti protegga Cecilia/ che tutto è mare e niente più” di C. Meireles. In quest’ultimo libro l’elemento dell’acqua si alterna a quello del fuoco segnando un percorso simile, almeno per me che ho scritto, alla risalita del fiume-serpente del romanzo 'Cuore di tenebra' di Conrad. Continuo è il passaggio dall’acqua al fuoco e viceversa, alla ricerca forse di una loro trasformazione, che non si riveli alla fine solo funzionale al mantenimento/alla sopravvivenza di un inferno, ma che possa essere più simile a una soglia, come nell’opera 'The Crossing' di Bill Viola. La presenza di acqua fuoco è al centro già a partire dal titolo che, oltre a porre l’accento sui due elementi riprende, per difetto, il gioco infantile “acqua acqua fuochino fuoco”, la ricerca di qualcosa che avviene a tentoni, con l’aiuto del solo tatto e con poche parole come indicazione e alla fine, come segnale – forse – di riuscita.

Mi permetto di chiederle del suo lockdown.

L'ho trascorso a casa, a Ginevra dove mi sono trasferita lo scorso autunno insieme alla mia famiglia.

Come ne esce la sua poesia da questa prigionia? Con ulteriori spunti di riflessione, con sollievo, dubbio, o altro inferno da raccontare?

Non riuscivo a scrivere all’inizio. Giocavo moltissimo con mio figlio e tutte le mie energie erano rivolte a fargli avvertire il meno possibile la chiusura. Poi, a fine aprile, mi è stato chiesto di scrivere una serie di poesie per una produzione Rai cinema, 'Lockdown 2020 | L’Italia Invisibile' di Omar Rashid: un cortometraggio in realtà virtuale (riprese a 360° da vedere con un apposito visore) dedicato alle città sospese. Da allora non ho più smesso di scrivere. Non so ancora che direzione stia prendendo la mia poesia. Ma sento che i gusci (i corpi, la casa...) si stanno sgretolando verso l’esterno. C’è qualcosa che preme per uscire (forse per riflesso alla chiusura fisica vissuta in questi mesi).

Quanto può, una poesia, in un momento come questo?

Credo che se un’uscita c’è questa venga anche dalla poesia e dall’arte. “Acqua acqua fuoco” è pieno di riferimenti legati al mondo della letteratura e delle arti visive. La presenza di queste citazioni però non è soltanto funzionale alla composizione del libro, ma scaturisce da un bisogno di sopravvivenza. La sirena di Malaparte, la mucca pazza di Carol Rama, i bambini giganti sul confine America-Messico di JR (“Kikito”), il grande coniglio muto di Jan Skácel, i ragni di Louise Bourgeois, sono il solo modo in cui posso guardare (e vivere) l’inferno, il mio percorso è con loro perché se una via d’uscita c’è, risiede nello sguardo, nella resistenza, che l’arte può dare (o almeno per me è così).

Vorrei chiudere con Genova. Qual'è oggi il suo rapporto con la città d’origine?

Non pensavo di appartenerle. Me ne sono andata con una certa carica di rabbia: il mio contratto di lavoro non poteva essere rinnovato e non sembravano esserci molte altre possibilità. Ma da quando sono andata via per trasferirmi in Svizzera (ormai da sette anni) mi sono resa conto di come io sia 'spiovente' proprio come la mia città di nascita, come scriveva Giorgio Caproni in 'Litania': “Genova dove non vivo,/ mio nome, sostantivo”.

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