laR+ L'intervista

Morricone e la morte: 'Consapevole, come tutti i grandi'

L'autonecrologio, 'ulteriore segno di genialità'. Il ricordo di Alessandro De Rosa, con lui a quattro mani in 'Inseguendo quel suono', l'autobiografia

Da ieri sui muri di Trastevere (Keystone)
7 luglio 2020
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Un pioniere del necrologio, oltre che in campo musicale. “Ennio Morricone è morto. Lo annuncio così a tutti gli amici che mi sono stati sempre vicino e anche a quelli un po' lontani che saluto con grande affetto". Inizia così l'addio scritto di suo pugno dal grande musicista scomparso ieri. Il testo è stato letto dal suo legale all’entrata del Campus Biomedico di Roma, sul lotto di terra donato da un altro grande romano, Alberto Sordi. È destinato ai suoi cari e alla stampa tutta, e contiene le spiegazioni per l’aver chiesto una cerimonia privata (“Una sola ragione: non voglio disturbare”), oltre a un'ultima parola per i nipoti (“Spero che comprendano quanto li ho amati”) e per la moglie Maria, al suo fianco da settant’anni (“A lei il più doloroso addio”).

Il pensiero va al maggio di un’anticipata estate romana di due anni fa, quando il Maestro volle la stampa a casa sua per presentare l’imminente ’60 Years of Music’. Imminente a Locarno, in Piazza Grande, ma da conoscere nei dettagli soltanto prendendo un treno per Roma, attenti a non pronunciare mai ‘Spaghetti Western’ bensì ‘Western all’italiana’ (come da decalogo fornito dal suo entourage) e a non confondere “colonna sonora” con “musica per film”, bacchettata giuntaci quando l’intervista a laRegione era finita dalle parti di ‘Mission’, l’Oscar “rapinato”, parole sue. Nel 1987 vinse ‘Round Midnight’ di Bernard Tavernier, statuetta a Herbie Hancock per un film nel quale “metà delle musiche nemmeno erano state composte dall’autore” (altre parole sue). L’Oscar alla carriera, dieci anni più tardi, consegnatogli dal Clint Eastwood da lui ‘sonorizzato’ nei film di Sergio Leone, dalla bocca del Morricone in salotto ne usciva ridimensionato. Forse nemmeno quello ‘vero’ per le musiche di ‘The Hateful Eight’, nel 2016, riuscì a lenire quel dolore. Ma la cosa non sembrava scaldare più di tanto il Maestro. Gli chiedemmo se si sentisse risarcito e lui, riferito all’Oscar, rispose: “Ma sì. Giusto per averlo lì”.

Ce ne tornammo da Roma con il suo racconto di ‘Arancia Meccanica’, di quando Stanley Kubrick chiese al musicista qualcosa di simile al tema di ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’ (Oscar 1971 a Elio Petri) e Sergio Leone pose un geloso veto (“Disse che stavo lavorando con lui per ‘Giù la testa’, ma stavo solo assistendo al missaggio. Fu una bugia che mi danneggiò tantissimo”). ‘Arancia Meccanica’ come ‘Fantozzi’, altro film che il Maestro avrebbe musicato volentieri, non fosse che il rapporto con Luciano Salce, che del ragionier Ugo diresse i primi due insuperati capitoli, si era già interrotto.

Di quel piccolo rimpianto, e forse dell'intera vita di Morricone, aveva già scritto nel 2016 Alessandro De Rosa in ‘Inseguendo quel suono – La mia musica, la mia vita’, per dirla con le parole del Maestro, “Il miglior testo che mi riguarda, il più autentico, il più dettagliato e curato. Il più vero”. «L’incontro con Ennio Morricone – racconta a laRegione De Rosa, scrittore e compositore, nel giorno della scomparsa – fu un evento abbastanza fortuito. Quindi anni fa c’incontrammo a Milano; gli diedi un cd chiedendogli di diventare il mio maestro di composizione. Cercavo uno bravo…». Sorride Alessandro. «Il giorno dopo mi richiamò da Roma, dicendomi di studiare, indicandomi nomi di insegnanti e dandomi consigli». E dando il via a una lunga amicizia.

'Ogni singola cosa, fatta come fosse l'ultima'

Ha colpito tutti l’auto-necrologio. Non di meno De Rosa. «L’ulteriore segno di un personaggio dalla grande inventiva. Uno scritto, il suo, che mi ha anche fatto riflettere anche sulla mia posizione, sul fatto se fosse giusto da parte mia portare una testimonianza». Una comprensibile ritrosia, corroborata da quel “Nono voglio disturbare” scritto dal Maestro, rotta dal piacere di raccontare dell’amore, umano e professionale. «La nostra è la società dell’apparire. Quando c’è l’amore per una professione, come nel caso di Morricone, anche nella relazione che ci ha legato e ci lega, non siamo preoccupati di dover apparire. Basta l’essere occupati a lavorare bene, a far sì che quel che realizziamo contenga in sé un amore, e che questo amori arrivi a chi ascolta. Quell’amore non ha spazio per l’apparenza. Ciò che conta è ciò che si fa, che è anche uno dei suoi credo. Il mettere tutto se stesso nella musica, riscoprirsi, reinventarsi. Una grande forza, la grande lezione che ci dà e ci ha dato».

Lezione di vita, ma anche, se così si può dire, di morte: «Ci siamo trovati spesso a parlarne e lui voleva arrivarci pronto. Il suo scritto è la dimostrazione, anche geniale, di chi la vita la vuole prendere in mano, fino all’ultimo. C’è un inizio e c’è una fine, e Morricone ne era perfettamente consapevole. Credo faccia parte di tutti i grandi, che guardano la morte in faccia in ogni circostanza, non la nascondono, ci fanno i conti quotidianamente. È anche per questo che si arriva ai risultati, per il valore dato alla singola cosa, fatta sempre come fosse l’ultima, una delle sue grandezze». 

Morricone applicato al Tormentone

“Ma quale divertimento, io lo facevo soltanto per guadagnare!”, ci disse nel suo salotto di Roma a proposito degli esordi come arrangiatore di canzoni, attività portata avanti con il rigore di chi comunque alle canzoni applicava le proprie teorie sull’arrangiamento: “Ero convinto che per ogni singolo brano – disse ancora in quell’occasione – si potesse tranquillamente togliere la melodia cantata e l’orchestra avrebbe mantenuto egualmente la sua funzione. Cioè, il pezzo si sarebbe retto da solo”. Motivo per il quale, quand’anche si tolga la melodia a ‘Sapore di sale’ e a molti inscalfibili tormentoni estivi (da ‘Pinne, fucile ed occhiali’ ad ‘Abbronzatissima’), si otterrebbero impeccabili opere a sé.

«Mi viene in mente ‘Comizi d’amore’ di Pier Paolo Pasolini», commenta De Rosa. «La musica di sottofondo al regista che in tv gira le spiagge d’Italia è più o meno tutta arrangiata da Morricone. Morandi, Paoli, Vianello. Che Morricone non amasse la canzone o il cinema non è esattamente vero. Il problema sta nel contesto culturale dell’epoca, che vedeva nella musica applicata, che io definisco ‘di consenso’, quella che ottiene riconoscimento commerciale importante, un tabù per chi frequentava i conservatoriali. Pensieri che producevano un’opposizione: o era ricerca musicale assoluta e astratta, oppure era commercio. Morricone nasce e cresce in quest’epoca, non pensando di diventare arrangiatore, o compositore di musica per il cinema. Lui voleva essere compositore come Palestrina, Stravinskij, Bach. Sono state le vicissitudini della vita, e anche la necessità di lavorare, a portarlo alla musica per il cinema, che ha fatto così bene da costruirsi quel titolo di ‘Imperatore’, come l’ha definito il direttore di Cannes. Morricone ha inventato davvero mondi sonori, cosa che non accade spesso nella storia della musica».

Di quanto fatto nella musica leggera, Morricone aveva una predilezione per ‘Ogni volta’, cantata da Paul Anka, arrangiata dopo essere stato spronato dai dirigenti della RCA a dare più spazio alla sezione ritmica. “A me la sezione ritmica non è mai interessata granché”, spiega nel libro a De Rosa. “Ho sempre pensato che un buon arrangiamento si definisse piuttosto con le entrate degli strumenti e i conseguenti trattamenti orchestrali, le scelte timbriche…”. La sua predilezione la musica leggera italiana tutta l’ha invece per ‘Se telefonando’, commissionatagli dalla Rai quale sigla del programma ‘Aria condizionata’. Entusiasta per il fatto che fosse Mina a doverla cantare, Morricone ne scrisse la musica, completata poi dal testo di Maurizio Costanzo e Ghigo De Chiara. I due, il Maestro e ‘Mazzini’, s’incontrarono in una saletta di via Teulada a Roma: “Io mi misi al pianoforte e le accennai la melodia con la voce. Lei l’ascoltò una volta e mi chiese il foglio con il testo. Quando ripartii col pianoforte lei fu stupenda: come se la conoscesse da una vita”.

Peppuccio e il jukebox

‘Inseguendo quel suono’, libro senza tempo e di rara profondità in cui il linguaggio tecnico fila via come un ricamo, parte dal Morricone scacchista che sfidò Boris Spasskij (“Il momento più alto della mia carriera”, di scacchista) e finisce con la testimonianza dell’amato Peppuccio, come il Maestro amava chiamare Giuseppe Tornatore, citato anch’egli tra gli affetti più cari nell’addio comunicato ieri. Peppuccio che tra i ricordi di bambino conserva la visione del jukebox dello stabilimento balneare del suo paese, più tardi ricostruito in ‘Baarìa’, dal quale un pomeriggio partì la musica di ‘Per qualche dollaro in più’. “Da quel jukebox – scrive Tornatore – solitamente risuonavano le canzoni di Mina, di Celentano o dei Beatles. Andai al jukebox e guardai la copertina del 45 giri, che era identica al manifesto del film: fu una scoperta per me. Lessi che la musica era di Morricone e associai il suo nome a quella presa di coscienza”. La presa di coscienza che “la musica di un film potesse vivere indipendentemente dal suo stesso film”, la convinzione che vi fosse “finalmente qualcosa del film che potevi portarti a casa”.

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