Microcosmi

Quel che resta dei giorni

E dopo il Coronavirus? Siamo stati costretti a vedere fino in fondo la nostra fragilità. Ora occorre un salto di qualità nel nostro pensiero

Che la parte nascosta di noi sappia ascoltare la voce dei bambini (Keystone)
6 giugno 2020
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Non si tratta del romanzo di Kazuo Ishiguro, ‘Quel che resta del giorno’, anno 1989, né del film di James Ivory del 1993, a questo ispirato, anche se la difficoltà di una relazione a compiersi, il tempo che passa, i destini di un’epoca, risuonano ai giorni nostri quale esperienza tragica della vita. L’avvertire una tempesta dove gli uomini oscillano tenendosi a volte per mano. Cosa resta in noi di quanto avvenuto? Forse, l’idea che il tempo si sia convertito in un tempo non piu’ lineare, ma all’opposto in una costante discesa e risalita tra passato e presente, con un futuro da mettere a fuoco seguendo tracce di un altrove. In un certo senso il tempo è diventato ansia, attesa, speranza, si è amalgamato nelle vicende giornaliere allora che la crisi si acuiva e le perdite aumentavano; perdite, senso della perdita, tutto sommato quella cosa che per molti motivi avevamo rimosso dentro l’apparenza di un mondo facilmente gestibile, piegato ai nostri bisogni. Disabituati ai chiaroscuri, agli stati di mezzo, all’incertezza che pure spinge il desiderio oltre l’apparenza a patto di mettersi in discussione, cercando.

Quasi fosse una purificazione, via via che passavano le settimane abbiamo risposto a una chiamata, essere vigili, attenti, riprendere un discorso aperto all’idea di cittadinanza. Ritrovare spazi, anche quelli piccoli, dove sostare, passeggiare nei boschi e in quel momento entrare nella voce del silenzio, un viaggio straordinario perché libero dai mezzi e dagli strumenti, voce presente nel fitto del bosco e nella radura passaggio di anime, bacche, animali. Diminuire la pretesa di controllare tutto, sacrificarlo ai nostri usi comuni, accogliere il selvaggio che intorno celebra il ciclo della vita, “il germe naturale di una creazione”, scrive Gaston Bachelard. Di fronte alla morte, una morte data da un corpo invisibile che si annida in un corpo di carne e sangue, abbiamo pregato, ci siamo raccolti in qualsiasi momento del giorno con una parola rivolta al Signore o con le parole che venivano da una preghiera laica, libera, allo stesso modo piena di tensione umana e pietà, per questo fruttuosa. Abbiamo preso le distanze da chi, con tutto il rispetto, parlava solo di guerra, di offensiva e trincee; no, era la consapevolezza che alla scienza non si poteva chiedere, subito, una risposta, piuttosto guardare con rispetto al lavoro di ricercatori, medici, infermieri, che hanno dato tutto per l’urgenza della cura. Fino a morire.

Cantilene e filastrocche

I giorni sono passati nella spettrale visione dei luoghi: ecco quella strada deserta percorsa mille volte e ora che sto camminando sfioro le antiche case, entro con prudenza nei cortili, scorgo particolari, dettagli che danno la misura dei lavori fatti negli anni, la sapienza dei costruttori. Invece, con un senso di disorientamento vedo tutto il costruito in eccesso, una multiforme catena di edifici in gran parte ‘alto standing’, concentrati uno sull’altro, ramificati, padroni del territorio. Mi sono ricordato, all’improvviso, delle cantilene e filastrocche delle madri e delle nonne quando qualcosa di minaccioso si avvicinava. Una ritualità in gran parte dissolta; accanto alle cure mediche, nei momenti di prova facciamo ricorso alla narrazione, diventiamo piccoli astri che brillano per le loro parole e per l’intervallo che le tiene in essere. Il signore che rientra con la sua auto senza parlare manda un saluto con la mano; abbiamo vissuto una distanza diversa, sociale, eppure questo ci portava al cielo, alle distanze dei pianeti che accompagnano il nostro cammino. Le Pleiadi luminose di Omero. Mi è parso che oltre i discorsi sul ‘Coronavirus’, si facesse avanti l’esigenza di scendere nella nostra interiorità, guardandola sul serio, senza sconti: cosa penso di me, adesso? Come vivere? Cosa cambiare o continuare della mia esistenza?

In questi mesi in cui si è sperimentato un fenomeno planetario di inaudita forza, siamo stati costretti a vedere fino in fondo la nostra fragilità, la possibilità che si possa morire da un momento all’altro e che la tecnica, la tecnologia, non ci puo’ difendere piu’ di tanto. Occorre un salto di qualità nel nostro pensiero, riducendo il divario tra cultura e natura, il pensiero che assorbe il naturale nel tentativo di ingabbiarlo. Comprendere che se questa non è stata la fine del mondo è stata la fine di un mondo. Non possiamo distaccarci da una cultura secolare, ma possiamo immergerci nei meandri della vita ridandole valore e unicità. Che la parte nascosta di noi esca in superficie e liberi frammenti di speranza, li coltivi, sappia ascoltare la voce dei bambini e degli uccelli del mattino, guardando l’orizzonte con tante domande dentro. Da non sprecare subito, lasciando che bussino liberamente quale annuncio di una visita gradita.

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