Culture

Il mancato annientamento dello 'scandaloso' Peter Surava

Finalmente tradotta in italiano l'autobiografia di Peter Hirsch, scomodo protagonista del giornalismo d'inchiesta svizzero durante la Seconda guerra mondiale

(Keystone)
6 giugno 2020
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«(…) Ogni persona brilla di luce propria in mezzo a tutte le altre. Non esistono due fuochi uguali. Ci sono fuochi grandi e fuochi piccoli e fuochi di tutti i colori. C’è gente di fuoco sereno, che non si cura del vento, e gente di fuoco pazzo, che riempie l’aria di faville. Certi fuochi, fuochi sciocchi, non fanno lume né bruciano. Ma altri ardono la vita con tanta passione che non si può guardarli senza strizzare gli occhi; e chi si avvicina va in fiamme.» 

Eduardo Galeano, ‘Il mondo’, da Il libro degli abbracci

 

Dava fastidio Hans Werner Hirsch, alias Peter Surava. Per questo ha dovuto imparare a sue spese cosa significa “vivere da condannato senza che sia stata emessa alcuna sentenza”. La sua autobiografia, finalmente tradotta in italiano (‘Si faceva chiamare Peter Surava’, Edizioni Ulivo, Balerna, 2020; l’originale tedesco è del 1991, la versione francese del 1998), è la cronaca di “un annientamento ben pianificato”, voluto per “ridurre al silenzio un giornalista scomodo”.

“Per via di un nome che evocava un’ascendenza ebraica, (...) subì l’antisemitismo senza essere ebreo, subì l’anticomunismo senza essere comunista, e a causa del suo coraggio civile patì ingiustamente il carcere, la diffamazione e l’isolamento”, ricorda nell’accurata prefazione il traduttore Manuel Guidi. La testimonianza di Hirsch è più attuale che mai. Ci rammenta “le difficoltà del nostro Paese a fare i conti con alcuni capitoli della propria storia” (arriveranno nel... 2014 le scuse ufficiali del Consiglio federale alle vittime di collocamenti coatti, di cui lui scrive già nel 1944); e ci fa toccare con mano la sofferenza di tutte quelle persone, anonime e no, che non si conformano; e che per questo vengono ignorate, vilipese, ostracizzate. Bandite.

Il giornalista

Hirsch (Zurigo 1912 - Oberrieden 1995) è stato uno dei protagonisti del giornalismo d’inchiesta svizzero. Tra il 1940 e il 1944 è caporedattore del settimanale antifascista ‘Die Nation’. Costantemente nel mirino della censura ufficiale, nei suoi pionieristici reportage (firmati spesso con l’amico fotografo Paul Senn) denuncia le condizioni di lavoro delle operaie a domicilio di Eriswil, lo sfruttamento dei braccianti agricoli, i maltrattamenti subiti dai bambini in affidamento forzato o nei riformatori, i massacri compiuti dalle Ss in Francia. La sua è “(…) una vocazione alla scoperta dei retroscena e delle connessioni che stanno alla base dei mali sociali da denunciare”: “Sentivo di essere un giornalista con tutto me stesso”.

Allergico alle etichette, Hirsch/Surava lancia “attacchi in ogni direzione, senza riguardi per le persone o per i ruoli che ricoprivano, tanto a destra quanto a sinistra”, pestando “i piedi a troppa gente” e facendosi “molti nemici”: dal consigliere federale Eduard von Steiger (“il mio grande nemico politico”, quello de “la barca è piena”) ai giudici del Tribunale federale, dalla Pro Infirmis ai giornalisti “lacché”. In un paese dove molti pensano che chi non tace danneggia la patria, dove “il veleno antisemita" ha "profondamente infettato anche le menti dei democratici più retti e incorruttibili”, Hirsch/Surava viene accusato di sensazionalismo. Ma quel che lui riporta “è solo ciò che ho visto”.

L'uomo

“Per tipi del genere un tempo c’era la forca. Oggi le cose vanno fatte con più eleganza. (…) Bisogna distruggere la sua identità”. Così recita il ‘Coro degli àuguri’, sorta di voce fuori campo dei suoi detrattori che fa da fil rouge all’autobiografia. La vicenda del nome è emblematica. Agli inizi della sua attività pubblicistica, Hirsch adotta lo pseudonimo Peter Surava, dal toponimo del comune grigionese. Il caporedattore della ‘Nation’ Hans Graf gli consiglia di mantenerlo, per evitare di scatenare l’odio dei filonazisti nostrani. Nel 1941 il Consiglio di Stato zurighese avalla il cambiamento di nome. Ma nel 1946 il Tribunale federale, su iniziativa del comune di Surava, gli proibisce di portarlo. I giudici losannesi tralasciano però di contestargli l’utilizzo del nome Peter. E così anche il suo nome di battesimo (Hans Werner) va perduto.

Hirsch paga cara la sua indipendenza. Nel 1948, iscritto di forza al partito (lui, cane sciolto, non aveva voluto la tessera; e ai 'compagni' non era andata giù), si dimette dal ‘Vorwärts’, organo di un Partito del lavoro asservito a Mosca. Si ritrova disoccupato, “proscritto da ogni parte, (...) completamente libero ma anche messo al bando da tutti. Ognuno poteva scagliare su di me la sua pietra e raccontare le storie più assurde sulla mia persona.”

La fine, l'inizio

Maldicenza e invidia corrodono il suo animo. Nel 1949, quasi tre anni dopo l’incarcerazione subita nel 1946, il tribunale di Berna lo condanna a un anno con la condizionale in una causa dai contorni kafkiani intentatagli dalla ‘Nation’ per reati patrimoniali. Il giudice lo avverte: se insiste non avrebbe più potuto rifarsi una vita. Lui, "a un passo dalla riabilitazione" si fa convincere. Contro il parere del suo avvocato, ritira l’appello. “Avevo tradito me stesso, mi ero venduto (…). Avevo contravvenuto alla mia essenza più pura”. È “la fine dell’amor proprio”. Hirsch cade “in una grave depressione”.

Nel punto più basso, rialza la testa. Lontano dai riflettori, avvia “una battaglia ostinata per ripulire la mia vita interiore dalla delusione, dall’odio, dalla rabbia, dalla disperazione e dalla rassegnazione”, quei “demoni tenebrosi” che lo avevano attanagliato quando “il mio io interiore lottò per la propria sopravvivenza”. Riprende a lavorare, sotto diversi pseudonimi, come giornalista (per decenni dirige tra l’altro il periodico ‘Bewusster leben’, ‘Vivere più consapevolmente’), scrittore e drammaturgo. Nel 1991 pubblica l’autobiografia. Arriva la riabilitazione ufficiale. Il regista Erich Schmid realizza un film documentario su di lui, che viene presentato nel 1995 alle Giornate di Soletta e al Festival di Locarno. A Soletta, la consigliera federale Ruth Dreifuss lo elogia. Il consigliere federale Flavio Cotti raccomanda la visione del film nelle scuole. Il comune di Surava lo nomina cittadino onorario. La Fondazione contro il razzismo e l’antisemitismo gli assegna il premio Fischhof.

L’eredità

“A tutti coloro cui le mie azioni hanno causato dolore, vorrei chiedere sinceramente perdono. Se fosse possibile inviare a tutti, amici e nemici, un ultimo affettuoso saluto dall'oltretomba, possono essere certi che augurerei loro ogni bene”. Hirsch, autore del suo necrologio, muore di lì a pochi mesi. I dubbi (“Non si dovrebbe prima di tutto fare ordine dentro se stessi?”), le sue pecche (quelle di “un uomo che, lungi dall’essere senza macchia è invece pieno di debolezze, (…) sospinto da emozioni mal governate, temerario più che coraggioso”) lo devono aver accompagnato fino alla fine. Oggi, 25 anni più tardi, Manuel Guidi - al quale va il merito di aver curato la traduzione di un libro che altrimenti sarebbe rimasto ignoto a molti lettori di lingua italiana - ricorda con gratitudine e indulgenza questo “nonno un po’ lontano, che da bambino e ragazzo andavamo a trovare” vicino a Zurigo, e che gli ha lasciato in eredità “un atteggiamento etico nei confronti del mondo, la solidarietà nei confronti dei più deboli”. “Se mi fossi imbattuto in questo libro e non fosse stato scritto da lui, l’avrei tradotto lo stesso”, ci dice. Nessuno è riuscito ad annientare Peter Hirsch.

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