Culture

Era Gianni Mura, il raccontatore stonato

L'accostamento con un altro Gianni, Brera, per l'essere sempre ben oltre il giornalismo. Morto a 69 anni, la stampa gli dedica carezze (anche la cucina e la musica)

23 marzo 2020
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Nel giorno della morte di Gianni Mura, la stampa era un Louvre degli epitaffi. C'era Stefano Bartezzaghi che di lui ricordava la passione per la musica applicata all'attacco cardiaco che se l'è portato via a 69 anni (“Voleva bene alle fisarmoniche appoggiate su una sedia. Diceva che sono l'unico strumento che si dilata. Dimenticava il suo cuore”); c'era Michele Serra che faceva altrettanto ma citando ‘L’Eredità’, il programma tv (“Si era spazientito solo alla mancata risposta di chi fosse ‘La canzone di Marinella’. Vai a casa, se non conosci De André”). E Gianni Clerici, che è il tennis in letteratura e per l'ultimo saluto chiamava in causa il ciclismo, quel Tour de France che Mura ha narrato “così come Stendhal aveva raccontato l'Italia e Brera il calcio”.

'Senzamura'

“Il ciclismo ha i suoi santuari senza croci, crescono ai bordi delle strade” scriveva Mura alla morte di Marco Pantani. E via con le vette conquistate dal Pirata, che per Gianni Mura era ‘Pantadattilo’, così come per Gianni Brera – fu lui a pronosticargli un futuro “da giornalista come noi” – il milanista Gianni Rivera era ‘L’abatino’. Quell’accostamento tra Gianni, l’idea diffusa dell'esserne (di Brera) l'erede, è riassunta così dal collega Gigi Garanzini: “Noi senzabrera, uno dei tuoi tanti fior di conio, da oggi anche senzamura”. Così come per Brera, per Mura la dimensione giornalistica sarebbe un vestito stretto, entrambi ben oltre lo sport. E se si trattava di calcio, Mura abbassava la scure se c'era da abbassare (“La simulazione non fa parte del gioco, fa parte dell’imbroglio, esattamente come truccare le carte o pilotare gli appalti”).

Il romanziere

Alla Gazzetta dello Sport nel 1964 da praticante, a ‘Repubblica’ dal 1976 e in mezzo le collaborazioni con Epoca, L’Occhio e il Corriere d’informazione, Mura si autodefiniva “un raccontatore”, e per quella cosa che ogni giornalista ha nel cassetto un romanzo – a conferma del poter coltivare i due campi in assenza di un reale confine – il giornalista diventò romanziere nel 2007 per Feltrinelli con ‘Giallo su giallo’, un noir ambientato – è il colore a dirlo – nella carovana del Tour de France della quale fu fedele cronista e le cui storie, una parte, stanno anche in ‘La fiamma rossa. Storie e strade dei miei tour’, libro-testimonianza della 'Grand Boucle' uscito l’anno dopo. Tornando all'opera prima, vincitrice del Premio Grinzane - Cesare Pavese per la narrativa, il protagonista è un giornalista amante del buon cibo e del buon vino. Nulla di più autobiografico per chi, con la moglie Paola, animava il suo ‘Mangia e bevi’, rubrica enogastronomica del ‘Venerdì di Repubblica'. E gli epitaffi, oltre che di carta stampata, adesso profumano anche della buona cucina.

'Elogio della fisarmonica'

Con nemmeno troppo velato riferimento al “Confesso di aver vissuto” di Pablo Neruda, a Gianni Mura si deve una manciata di pagine sulla musica della quale era profondo conoscitore. ‘Confesso che ho stonato’, uscito tre anni fa, contiene l’ammissione di esserlo davvero (“L’essere stonato mi ha privato della carriera di cantautore”) e il concetto espresso dal Bartezzaghi di cui sopra nella sua completezza. Dice, Mura, dello strumento in occasione della promozione di quel libro: “Non ho mai visto nessuno suonare una fisarmonica da solo. La fisarmonica è l’anguria degli strumenti musicali, non va bene per una persona sola, ha bisogno di gente intorno”. Nel libro, ritratti di Sergio Endrigo (“Non ha scritto una sola canzone di cui vergognarsi”), di Edith Piaf, di Enzo Jannacci e del collega Beppe Viola. Nel capitolo “Live? No grazie. Il karaoke fatelo a casa vostra”, la sua idea del moderno concerto, “una violenza di gruppo”, per quel pubblico da coinvolgere che s’impossessa delle canzoni e non le ascolta più.

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