Culture

'Ladri di canzoni', duecento anni di plagi o presunti tali

Le liti musical-giudiziarie dalla A alla Z riassunte nel libro di Michele Bovi, già autore di 'Anche Mozart copiava' (e se copiava lui...)

Due secoli di controversie tra musicisti
16 marzo 2020
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È davvero difficile dire che le due canzoni non si somiglino, eppure la Corte di San Francisco, applicando una legge di cent’anni fa sul copyright, ci ha messo una pietra sopra. Nulla devono i Led Zeppelin agli Spirit, band californiana che da tempo pretendeva da Robert Plant & Co dai 3 ai 13 milioni di dollari in diritti d’autore per l'essersi appropriati della loro ‘Taurus’ (1968), divenuta poi ‘Stairway to heaven’ (1971). A nulla è valso agli accusatori l’essere riusciti a dimostrare in prima istanza l’avere avuto accesso da parte degli accusati a quella canzone e l’essere i due brani “intrinsecamente simili” per oltre due minuti.

Per la categoria ‘Libri contro l’isolamento’ (‘I libri ai tempi del coronavirus’ è titolo inflazionato), la giurisprudenza delle beghe tra compositori è sintetizzata in un fondamentale volume intitolato ‘Ladri di canzoni’ (Hoepli), sottotitolo 'Duecento anni di liti musical-giudiziarie dalla A alla Z'. Andando a ritroso, dalla Z di Zucchero, del quale abbiamo scritto a sufficienza, sino alla A di ‘Abusi musicali’, capitolo contenente due fondamentali massime: “Al successo di una canzone, soprattutto se l’interprete è famoso, corrisponde una citazione in giudizio per plagio” (lo dice l’autore, e nel capitolo laRegione è citata per il contributo sulla causa Antonacci-de Luca per la paternità di ‘Mio fratello’); la seconda è un’esortazione del fu jazzista italiano Giorgio Gaslini, ivi riportata in tutta la sua granitica verità: “Il consiglio è di non lasciare in giro niente in assenza di un incarico. Non fate ascoltare musiche, non inviate nastrini con pezzi pure se depositati. Altrimenti ritrovarli trasformati e firmati da altri non è un rischio. È una certezza”.

Già sassofonista in giovane età, già contrabbassista al conservatorio Santa Cecilia di Roma «perché il sassofono al tempo era un peccato mortale», già nei ‘Pierfranco Colonna e i Boa Boa’, gruppo di spalla a Jimi Hendrix in Italia nel 1968, già giornalista di cronaca (fine dei ‘già’), un bel giorno la Rai chiede a Michele Bovi «perché non ti occupi di musica con taglio diverso dalla recensione?». Nascono così gli oltre venti ‘Dossier’ su plagio, diritto d’autore, similitudini e «monitoraggio dei servizi segreti sui musicisti italiani», categoria per la quale noi il Bovi ce lo siamo sempre immaginato col cappello, la mantella e la lente d’ingrandimento, per le strade di Londra più che per quelle di Roma.

«Il mio è un pensiero che si avvicina più a quello di Ennio Morricone che non a quello di chi fa denuncia per plagio – ci spiega Bovi – ovvero la presa di coscienza che nella musica leggera le combinazioni sono finite e per forza di cose, affinché una canzone sia orecchiabile, deve per definizione ricordare brani precedenti». Con una puntualizzazione: «Solo la musica leggera è un tempio di vertenze e di plagio, perché la musica classica e il jazz non sanno cosa sia la citazione in giudizio». Vista la messe di cause aperte – tanto per citarne una, quella per la paternità di ‘Prisencolinensinainciusol’, ancora aperta dal 1972 – e visto l’assunto di cui sopra sull’esaurimento delle combinazioni, Bovi è sostenitore dell’arbitrato per lasciare in pace i magistrati. «In Italia, lo statuto Siae lo prevede. Ci si può affidare a una giuria di musicisti che decide la reale esistenza di un plagio. Bacharach sostiene la stessa cosa, Tim Rice la chiese nel 1998, appoggiato da Phil Collins, Elton John, Sting e molti altri. Come si vede, la protesta non è un problema solo italiano. Tanto più in America dove le spese processuali sono da pagarsi in anticipo e se anche vinci la causa può capitare che chi ti deve risarcire sia insolvibile».

'Mi dicevano: noi firmiamo, poi ogni sei mesi ti giriamo i profitti, tranne una piccola percentuale per il disturbo. Non ho mai visto un soldo'

Insieme alla ricostruzione della querelle Al Bano-Michael Jackson, alla canzone napoletana che avrebbe ispirato ‘Yesterday’ (‘Picceré’) e al remix di un brano di Gino Vannelli con dentro la voce di Giovanni Paolo II – pena pecuniaria di 20 milioni di lire e il macero delle copie stampate, perché Radio Vaticana detiene l’esclusivo diritto di esecuzione della voce del Papa – ‘Ladri di canzoni’ è un pozzo di aneddoti certificati. «Sono riportati fatti e testimonianze, è tutto citato e al momento non ho ricevuto malumori da parte di nessuno. Che Eros Ramazzotti, Biagio Antonacci o i Modà non abbiano piacere che si sappia che c’è una causa in corso, non è importante». Dunque, con massima certezza delle fonti, si va da Lucio Dalla denunciato da un’impiegata della Rca per la paternità di ‘Futura’ (l’impiegata perse la causa e pure il posto) alle vicende del giovane Francesco Guccini, autore non iscritto alla Siae costretto a far firmare la canzoni ad altri: “Mi dicevano: noi firmiamo, poi ogni sei mesi ti giriamo i profitti, tranne una piccola percentuale per il disturbo. Non ho mai visto un soldo” (per ‘Auschwitz’, la causa contro Maurizio Vandelli durò 30 anni).

Ce n'è anche per Fabrizio De André, convinto da Giorgio Gaber a ridepositare ‘Via del Campo’ aggiungendo il nome di un infuriato Jannacci, autore di ‘La mia morosa la va alla fonte’. C'è pure chi ha messo la firma su ‘I due liocorni’, inno degli asili nido italiani, facendolo diventare ‘I due coccodrilli’, c’è l’inno della Lombardia copiato da una canzone contro la distruzione della foresta amazzonica, c’è Roger Waters dei Pink Floyd che ritrova ‘Echoes’ nel tema principale del Fantasma dell’Opera e commenta: “Probabilmente è perseguibile, ma penso che la vita non sia abbastanza lunga per preoccuparsi di fare causa a quel f****** di Andrew Lloyd Webber”. C’è anche l’operazione ‘O sole mio’ condotta dal boss mafioso Frank Costello che lasciamo agli appassionati di noir, ma che apre un capitolo ampio e interessantissimo sullo sfruttamento dei diritti d’autore da parte di Cosa Nostra negli Stati Uniti.

'Bello questo pezzo, ti dò dei soldi, mi dai i diritti per 25 anni?'

«Un compositore sa perfettamente quando è il momento di modificare qualcosa». Questa è per Bovi la discriminante del plagio. «Prendiamo George Harrison», ovvero ‘My sweet Lord’ (1970), plagio "inconsapevole” di ‘He’s so fine’ (1962), con relativo risarcimento milionario. «John Lennon disse che George era stato uno sprovveduto, che bastava cambiare un paio di note e nessuno l’avrebbe denunciato. Il punto interrogativo di quella storia non è che non se ne sia accorto George Harrison, ma che non se ne siano accorti nemmeno Billy Preston, Eric Clapton, Phil Spector, tutta gente che non soffriva di soggezione nei confronti di Harrison. E infatti quella vicenda non è mai stata chiara».

Tra i temi più interessanti, Bovi cita «quello che Gino Paoli chiama il ‘far west’ degli anni Sessanta, le cover di brani stranieri depositate con i nomi di autori italiani con la gigantesca responsabilità, se non quasi unica, degli editori. Ascoltavano il brano che funzionava, chiamavano l’editore straniero e gli dicevano “Bello questo pezzo, ti dò dei soldi, mi dai i diritti per 25 anni?”. In realtà il pezzo l’avevano già inciso e i soldi li avevano già fatti». Quanto si è divertito in questo campo, Michele? «Mi diverto da oltre vent’anni». Bovi è lo stesso di ‘Anche Mozart copiava’, versione meno giudiziaria di ‘Ladri di canzoni’: «Mozart tendeva l’orecchio agli italiani, a Pasquale Anfossi, ad Antonio Salieri. Coglieva uno spunto magari insignificante e lo trasformava in un capolavoro. All’epoca non c’erano problemi di plagio, si parlava di 'alla maniera di', ovvero di trasposizione. Ma dell'invidia di Salieri ha detto già tutto Miloš Forman».

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