Culture

Riscaldamento globale: ricordi aridi

I pini trasmettono ai propri discendenti la memoria del clima secco: potrebbe cambiare il modo in cui gestiamo i boschi, ci spiega il ricercatore Giorgio Vacchiano

Di generazione in generazione
29 febbraio 2020
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Il riscaldamento globale non solo sta cambiando le condizioni di vita sulla Terra, ma lo sta facendo anche molto velocemente. Troppo velocemente perché non solo la società, ma anche molte specie animali e vegetali riescano ad adattarsi al nuovo ambiente mediamente più caldo e secco. Il che significa che difficilmente le nostre foreste – con alberi spesso vecchi di secoli – riusciranno ad adattarsi, ma le cose fortunatamente non sono messe così male, come sembra dimostrare una ricerca condotta dal Wsl, l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio, e recentemente pubblicata sulla rivista scientifica ‘Plant, Cell & Environment’ (Arun K. Bose et al., ‘Memory of environmental conditions across generations affects the acclimation potential of scots pine’).

I ricercatori hanno studiato per oltre dieci anni l’adattamento al clima arido dei pini silvestri, guardando in particolare ai cosiddetti meccanismi epigenetici che “adattano”, senza mutarlo, il Dna delle piante permettendo ad esempio di meglio sopportare la scarsità d’acqua. «La rilevanza della scoperta non è tanto che esistano, questi meccanismi epigenetici: li conosciamo nell’uomo da tempo e nelle piante da almeno una decina d’anni» ci spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore all’Università di Milano al quale abbiamo rivolto alcune domande per comprendere l’importanza della ricerca del Wsl.

Giorgio Vacchiano, cosa c’è quindi di nuovo in questo lavoro?

La parte inedita è che questi meccanismi epigenetici siano ereditabili, che si trasmettano alla generazione successiva: tutto lo studio si basa su una prova di riproduzione di queste piante per scoprire che l’ambiente in cui i genitori si sono sviluppati induce questo “effetto memoria” di adattamento che viene trasmesso alla progenie. Si tratta di una sorta di “ricerca indiziaria”: è stata esclusa tutta una serie di altri fattori che potevano spiegare questo effetto, per cui rimane l’epigenetica – anche se poi non si è andati a fare analisi genetiche sulle metilazioni del Dna o la regolazione degli istoni, per citare due tra i meccanismi epigenetici più noti.

Questo quanto cambia la nostra visione sulle piante e le foreste?

Pensiamo che la dottrina classica, quella che studiamo fin dalle superiori, afferma che gli aspetti genetici e quelli ambientali sono relativamente indipendenti gli uni dagli altri: sappiamo che le caratteristiche degli esseri viventi, esseri umani compresi, sono dovute in parte al Dna e in parte all’ambiente ma, appunto, in maniera indipendente e soprattutto sappiamo che la parte dovuta all’ambiente non è ereditabile. Ecco che queste scoperte cambiano un po’ le carte in tavola, e mi riferisco non solo al lavoro del Wsl che riguarda la performance delle piante appena germogliate ma anche a un’altra ricerca recente, appena uscita su ‘Annals of Botany’ (Samarth et al., ‘Molecular control of masting: an introduction to an epigenetic summer memory’), sulla fioritura. Entrambe le ricerche si occupano della fase riproduttiva e mostrano che quando pensiamo di conoscere il corredo genetico di una certa specie forestale, o quando cerchiamo di inserire più specie nel nostro bosco per assicurarci una maggiore diversità genetica, in realtà non sappiamo ancora tutto. Magari invece di puntare sulla diversità genetica potremmo semplicemente usare quelle che chiamiamo “provenienze”, cioè semi della stessa specie ma i cui genitori sono cresciuti in condizioni ambientali differenti.

Il che sarebbe un vantaggio?

Accorcerebbe di molto la ricerca di piante adattate alle condizioni climatiche del futuro. Invece di aspettare che il genoma si modifichi tramite mutazioni casuali – non possiamo intervenire direttamente sul genoma delle piante forestali – possiamo contare su piante che provengono da ambienti aridi: prendendo i semi o i figli di queste piante e inserendoli in boschi dove temiamo si possa verificare la siccità, dovrebbe poter accelerare l’adattabilità. È una cosa che già adesso si fa in alcune zone del mondo, ad esempio in Canada: la chiamiamo “migrazione assistita”, tipicamente piantando semi provenienti da zone più meridionali. Ma finora pensavamo che questa adattabilità fosse dovuta solo a un genoma diverso, adesso sappiamo che c’è un fattore in più.

Dovremmo cambiare alcune prassi nella gestione delle foreste o è prematuro?

Se non altro deve mettere in discussione una pratica ancora molto comune, soprattutto nelle Alpi e nell’area mediterranea. Nella gestione forestale normalmente la riproduzione viene lasciata agli agenti naturali: quando tagliamo degli alberi, di solito non li ripiantiamo ma lasciamo che siano gli alberi locali a riprodursi, intervenendo al massimo per migliorare le condizioni come la quantità di luce. Questo perché pensiamo che i semi del posto siano già i più adatti al clima, ma con il cambiamento climatico questo potrebbe non essere più vero, appunto perché avviene troppo velocemente rispetto all’adattamento genetico delle piante. E come il cambiamento climatico è nostra responsabilità, lo è anche aiutare la foresta ad adattarsi. Dovremmo invece ricorrere a questa migrazione assistita che però si scontra con la vecchia concezione che teme l’inquinamento genetico.

A proposito di foreste e riscaldamento globale: quanto nuove piante possono aiutare a contenere i mutamenti climatici? C’è chi dice che basterebbe piantare alberi…

Non è così. Una delle ricerche più accreditate, uscita nel 2017 su Pnas (Griscom et al., ‘Natural climate solutions’) e citata nei report dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ndr), mostra che anche estendendo il più possibile le foreste, cioè piantando alberi in ogni luogo che non comprometta l’agricoltura, riusciremmo a garantirci solo un terzo della riduzione di emissioni di gas serra prevista dagli Accordi di Parigi. Ci sono però altri modi in cui le foreste ci possono aiutare – ma sempre senza arrivare al 100 per cento. Quello più ovvio è mantenere le foreste ad alto contenuto di carbonio, evitando quindi la deforestazione soprattutto tropicale. Il secondo modo, meno ovvio, è usare il legno in modo sostenibile: il legno infatti trattiene il carbonio anche dopo la vita dell’albero, se usato per prodotti a lunga durata come un tavolo, una libreria, una trave – e con il legno ingegnerizzato ormai si riescono a realizzare anche palazzi e grattacieli. Facendo così, da una parte riduciamo il ricorso a materiali come il cemento, l’acciaio o la plastica, che producono molte emissioni; dall’altra, sostituendo alberi, ringiovaniamo le foreste e le foreste giovani assorbono carbonio a un ritmo più veloce di quelle vecchie.

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