Cinema

Berlinale, di un lungo weekend restano lacrime salate

Tutto il resto non vale l’emozionante umanità di 'Le sel des larmes' di Philippe Garrel: quello è cinema, gli altri sono film, solo film.

'Le sel des larmes' (© G.Ferrandis)
24 febbraio 2020
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Piove su una Berlinale che naviga nel vuoto fantasma di Potsdamer Platz, la notte diventa un’isola di solitudine che neppure le ombre dei film riempiono, sarà la pioggia, sarà la paura di un virus che viene da lontano, sarà che Berlino vive nei suoi quartieri, un puzzle che forma una grande città incapace di diventare metropoli per paura di perdere l’umanità che la permea tutta. E qui in concorso è stato accolto uno dei film più importanti dell’anno: ‘Le sel des larmes’ di Philippe Garrel, film sull’amore e sull’amare, sul saper amare, sul voler dare amore, sul vivere di sentimenti di pancia o di cuore, sul senso infinito che c’è in quella parola strana che è ‘padre’. Un film che canta il vivere e lo celebra con il senso del morire.

Un sublime bianco e nero

La storia è quella di Luc e di suo padre, entrambi falegnami nella provincia parigina. Luc si sta affinando a una scuola superiore di ebanisteria. Lui si apre alla vita, il padre è malato e sa di dover morire, ma non lo dice a quel figlio che svolazza tra una donna e l’altra, tradendole tutte. Scopriamo Luc che adesca una giovane lavoratrice nella periferia parigina, approfitta della semplicità dei sentimenti di lei, s’arrabbia perché non cede alle sue voglie. Tornato a casa, incontra una vecchia amica, si mette con lei che si concede tutta, ma egli pensa all’altra, e che importa se la nuova resta incinta, lui è deciso ad avere la giovane parigina e qual è il suo disappunto scoprendo che la ragazza è incinta di un altro, si sente tradito. Incontra quindi un’altra ragazza che lavora in un ospedale, ma lei è più libera di lui, lo costringe a dividerla con un altro; Luc non sa opporsi e nulla sembra cambiare il suo essere piegato alla situazione, neppure la notizia dell’aborto della ragazza che portava quel figlio suo, che lui non voleva. Solo la notizia della morte del padre riesce a restituirgli una dignità dimenticata; comprende finalmente che non esiste un’eternità nella vita, che suo padre non ci sarà più, che ha perso il tempo per viverlo e allora si arrabbia, caccia l’amico dell’amata e piange. Girato in un sublime bianco e nero firmato da Renato Berta, il film si avvale di un cast da applusi; e applusi sono stati, e commozione, perchè il cinema è grande quando sa regalare umanità.

Dall’Oregon al Brasile

Non reggono il confronto gli altri tre film in competizione: ‘First Cow’ della talentuosa film maker statunitense  Kelly Reichardt, ‘Todos os mortos’ dei brasiliani  Caetano Gotardo e  Marco Dutra, e ‘Undine’ di  Christian Petzold, film attesissimo dai berlinesi tutti che hanno decretato un’accoglienza veranente calorosa al loro concittadino. ‘First Cow’ è un western, si apre con una donna che oggi scopre sulle rive di un fiume due scheletri vicini. Sono quelli dei protagonisti della storia: un cuoco taciturno e solitario e un immigrato cinese. In quei luoghi, siamo nei boschi dell’Oregon, i due si incontrano casualmente decidendo di mettersi insieme e dopo avere scoperto l’unica mucca da latte delle vicinanze, ed eludendo la presenza del proprietario, approfittano della tranquilla bestia per prepare dolcetti sopraffini che vendono a piene mani al mercato locale. Tutto va bene fino a quando il proprietario scopre il quotidiano furto e per i due comincia una tragica fuga per non essere uccisi. La regia è sobria, la recita resta in superficie e la storia non regala emozioni, il film scorre l’acqua del fiume senza lasciare memoria.

Si maledice il buio della sala per ‘Todos os mortos’ del duo Caetano Gotard - Marco Dutra, perché spesso l’occhio corre in cerca dell’orologio, tanta è la noia che regala una pallida narrazione. Eppure il tema che il film porta sullo schermo è importante: ha come centro l’abolizione della schiavitù in Brasile, avvenuta nel 1888; siamo nel 1899 e ne vediamo i primi frutti in una città come San Paolo, in continua e rapida espansione. I registi ci mostrano un mondo femminile che cambia, da una parte le pallide figure di una vecchia famiglia dell’alta borghesia e dall’altra, serve nere che respirano la libertà. Attenti a una forma fine a sé  stessa, i registi faticano a far emergere la profondità di una storia fondamentale per il loro paese.

Un drammone da mille chiacchiere

Quarto film in concorso, ‘Undine’, che Christian Petzold ha tratto dalla novella omonima scritta nel 1811 da Friedrich de la Motte Fouqué e trasferendola ai giorni nostri con conseguenze talvolta ridicole. Il risultato è un drammone appesantito da mille chiacchiere sulla storia architettonica di Berlino, l’Ondina del titolo infatti fa la guida per i turisti al Senato spiegando l’evoluzione urbana della capitale tedesca. È difficile trasportare sullo schermo le fiabe, soprattutto aggiornandole, si creano momenti di totale incongruenza, e il confronto con il ‘Pinocchio’ di Matteo Garrone, passato qui come evento fuori concorso, mette le difficoltà di Petzold ancor più in evidenza.

La visione di Garrone  della figura e delle avventure di Pinocchio, pur restando fedele in linea di massima al dettato di Carlo Collodi, riesce a colorarlo con tinte inusuali, per esempio a pestigiosi precedenti come il ‘Pinocchio’ di Luigi  Comencini del 1972. Nella tradizione, infatti, la figura di papà Geppetto (là era Nino Manfredi) ha forti connotazioni femminili che vengono a sparire in questo film. Roberto Benigni è un papà Geppetto uomo, virile nel suo rapporto con il figlio-burattino, mentre la parte femminile viene risolta solo con una fata non più bambina ma adulta anche nel suo rapporto con Pinocchio. Nella sala vuota, incredibilmente, il film di Garrone ha mostrato la sua maturità narrativa. Peccato per gli assenti ma erano già tutti in fila per ‘Undine’. Le favole comunque non valgono l’emozionante umanità di Garrel: quello è cinema, gli altri sono film, solo film.

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