Culture

Elisabetta Rasy, l'arte della disobbedienza

Sabato al Lac, per la seconda delle Colazioni letterarie, la scrittrice racconta ‘Le disobbedienti’’, sei artiste, sei storie di talento, coraggio e dignità

Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte
31 gennaio 2020
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«Era la Parigi di tanti anni fa, era una mostra di Manet in cui vidi molti ritratti di una donna bellissima. Cercando di saperne di più, mi resi conto che non si trattava una semplice modella, ma di una pittrice, e cioè di Berthe Morisot. Da lì, da quella mostra, iniziai a occuparmi della sua vita e per assonanza, nella mia testa, andò via via formandosi una costellazione popolata da tante altre donne artiste dalle quali mi sentivo attratta». Ecco spiegata la causa scatenante di ‘Le disobbedienti. Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte’ (Mondadori), libro che sabato primo febbraio alle 11, Elisabetta Rasy renderà ancor più reale dialogando con Natascha Fioretti negli spazi del Lac, per il secondo appuntamento delle Colazioni letterarie, ciclo di incontri iniziato lo scorso 11 gennaio con lo scrittore, filosofo e giornalista italiano Paolo Pagani.

«Mi sono laureata ormai tanto tempo fa in Storia dell’Arte – continua l’autrice – e non ho mai smesso, pur incamminandomi lungo la via della letteratura, di seguire le vite dei pittori, di visitarne le mostre, di frequentare i musei». La cosa vale anche e soprattutto per queste sei donne diverse per carattere, epoca storica, estrazione, contesto sociale, accomunate dal talento e da una qualità non da poco per le relative epoche storiche: quella del coraggio, dell’audacia di ribellarsi allo statu quo loro imposto in quanto donne; ancor più, in quanto artiste.

Tracce di #metoo nel Medioevo

Giornalista, scrittrice, critica d’arte e saggista italiana, oggi collaboratrice al supplemento domenicale del Sole 24 Ore e con all’attivo numerosi libri tradotti in molti paesi europei, Elisabetta Rasy si è spesa per la questione femminile sin dai primi anni settanta con la fondazione di Edizioni delle Donne, casa editrice nata dal gruppo di femministe del Teatro della Maddalena di Roma. Oggi, in ‘Le disobbedienti’, Rasy raccoglie sei figure dell’arte al femminile per altrettanti secoli. Nel libro, oltre a Morisot – alla quale in pieno Ottocento l’Accademia era interdetta, cosa che non le impedì comunque di frequentare Degas e Zola e di esporre – compaiono anche: Elisabeth Vigée Le Brun, settecentesca pittrice di corte di Maria Antonietta costretta alla fuga dalla Rivoluzione; Suzanne Valadon, simbolo di trasgressione nella Parigi di fine Ottocento, artista che cresce il figlio artista, Maurice Atrillo; Charlotte Salomon, morta all’età di 26 anni ad Auschwitz, la cui opera sarà pubblicata grazie a Otto Frank, padre di Anna; fino a Frida Khalo, l’anticonvenzionalità per eccellenza, e partendo da Artemisia Gentileschi, che in un Rinascimento in cui la pittura non è cosa per donne riesce a farsi un nome malgrado uno stupro che farà di lei una figura ulteriormente scomoda.

Elisabetta Rasy, sei vite assai diverse con un elemento in comune...

Sì, sei artiste così differenti tra loro, ma unite dall’elemento della disobbedienza alle parole d’ordine del tempo. Su questo fattore ho immaginato un affresco di sei vite, le loro.

Partiamo da Artemisia Gentileschi, storia drammaticamente attuale per gli accadimenti personali e per quella critica che per lungo tempo ne ha giustificato la popolarità con le sole tristi vicende giudiziarie...

Di lei mi ero occupata analizzando gli atti del suo processo. L’attualità della figura è soprattutto questa. Non vorrei esagerare, ma nella sua forza credo possa celarsi una sorta di un #metoo avant l’aller. Lei, già ragazzina, è un grande talento e il padre pittore, che ha altri due figli, due maschi che non sanno fare nulla, si accorge che Artemisia sarà una pittrice. Dopo lo stupro – ad opera di Agostino Tassi, virtuoso del trompe-l’œil – lei affronta questo processo nel quale, come in tutti i processi per stupro almeno sino agli anni settanta del Novecento, chi ci rimette non è lo stupratore ma la stuprata, quesi processi in cui il colpevole è la vittima. Un processo, il suo, impressionante per le affinità con alcuni processi novecenteschi per le stesse accuse.

La storia parla di visite ginecologiche umilianti, di falsi testimoni portati in aula, di interrogatori condotti con l’uso della tortura...

Sì, ai quali però lei si ribella, non china il capo, difende strenuamente la sua verità. E lo fa da artista, dunque da figura doppiamente scandalosa per il suo tempo. Quando il padre le impone il trasferimento a Firenze, perché la sua reputazione è rovinata, tutti la considerano un mero caso di cronaca. Ma lei riuscirà, con la forza del lavoro e con tutta la sua dignità, a diventare la prima donna ad essere ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno, arrivando sino a interloquire con Galileo Galilei. Ecco perché chiamo in causa il #metoo, perché Artemisia non si lascia piegare dalla vergogna.

La storia delle sue donne, almeno per alcune di esse, ha anche un ulteriore, parziale, comune denominatore: l’accesso interdetto alle scuole d’arte...

Era, d’altra parte, il canone sessuale dell’epoca, in cui gli studi, l’istruzione in generale erano inaccessibili alle donne e quindi si rendeva necessaria la ricerca di una via laterale per costruirsi una carriera. La storia di Berthe Morisot, ragazza di buona famiglia, è interessantissima e assai diversa da quella di Valadon, per esempio, figlia di una ragazza madre che lavorava come donna di servizio, cresciuta in mezzo alla strada. Morisot studia pittura, pianoforte, ricamo per volere di una madre che vuole farne una perfetta padrona di casa. Lei, al contrario, sente nascere in sé una precisa vocazione e si reca al Louvre a copiare le opere dei maestri, lavora per conto suo e riesce a entrare in contatto con gli artisti.

Tra le donne di cui racconta, ne esiste una per la quale ha provato trasporto, coinvolgimento emotivo più forte delle altre?

Senz’altro Berthe Morisot, forse perché è quella da cui sono partita, ma anche perché è la mia figura del cuore, è quella che sento più vicina. Morisot è in fondo una borghese che persegue una sua vocazione in opposizione a un ruolo che le sarebbe più semplice, quello di donna sposata, di signora dei salotti, uno stile di vita messo da parte in luogo della più faticosa esistenza dedicata interamente all’arte.

C’è poi Frida Khalo, che rivive oggi nel web e in forma ultra-artistica, quella di eroina. Non certo meno eroina di Gentileschi.

Frida Khalo è stata una figura estremamente interessante e fortemente anticonformista. Io credo che la ragione per cui è ritenuta un’eroina del nostro tempo stia sì nella vita artistica, ma anche in quella personale, in quanto donna appassionata, combattiva, in lotta anche amorosa contro quest’uomo, Diego Rivera, così difficile, inaffidabile, profondamente infedele, prepotente. Nella popolarità includo anche modo di presentarsi di Frida Khalo, la sua maniera di vestirsi, di pettinarsi, un approccio totalmente anticonformista. Una libertà che quindi è anche fisica.

Sono trascorsi alcuni mesi dalla discesa in piazza delle donne svizzere per uno sciopero che qui ha fatto storia, sia pure con dinamiche molto diverse. Vorrei tornare al suo impegno femminista, che è stato profondo, e chiederle un ricordo di quegli anni.

Di quel periodo conservo immagini molto forti, perché il prendere coscienza nel profondo della diversità femminile rispetto all’epoca, rispetto alle possibilità, ha segnato la mia vita successiva. Ci tengo però a dire che quel movimento era molto articolato. C’era sì un aspetto di rivendicazione politica, salariale, di potere sociale, unito però a una forte riflessione sulla dinamica sessuale, sulla storia delle donne, sull’arte femminile. Un aspetto culturale, di approfondimento psicologico, d’interiorità molto forte. Era un movimento fortemente culturale che rimetteva in gioco un’antica antropologia femminile, che scavava realmente nel profondo, qualità che in fondo può considerarsi propria di tutti i movimenti di liberazione, che non sono mai soltanto semplici rivendicazioni sindacali.

Aggiornando quel movimento a oggi, 31 gennaio 2020?

Premessa la validità delle rivendicazioni, ho la sensazione che da quel movimento siano scaturiti mille filoni di lotta e di rivendicazione, ma che oggi, da un lato, sia tutto un po’ semplificato e, dall’altro, percepisco tutta una nuova generazione di donne che guarda al femminismo degli anni 60 come si guarda un vecchio arnese, a qualcosa che non ci riguarda più. E non è così, perché le battaglie non si vincono mai una volta per tutte. Quindi credo che ci sia ancora molto lavoro da fare. L’aspetto che più mi conforta, oggi, è che le donne si sentono legittimate a lottare per se stesse. A volte questa lotta è un po’ parziale, segue solo singoli obiettivi, ma la legittimazione sta lentamente arrivando per tutte. Anche in posti difficili e dai risvolti imprevedibili, come l’oppresso e lontano mondo arabo.

Mi permetta la divagazione in ambiti non prettamente pittorici: sulla legittimazione della donna c’è forse ancora qualche rapper da convincere...

Le confesso che ho seguito quella vicenda in maniera davvero superficiale, ma le dirò che sono favorevole al politically correct. Non penso affatto che il politicamente corretto sia una moda. Credo ci siano dei limiti che nemmeno la libertà artistica deve superare.

 

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