Culture

Nei vicoli di Napoli, 'Il giudice e il camorrista'

‘La sofferenza delle vittime è per tutta la vita’, scrive Carla Del Ponte nella prefazione de ‘Il giudice e il camorrista’, romanzo di Francesco Cascini

Una veduta della città partenopea
27 dicembre 2019
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“L’odore di cipolla di una tavola calda di scarsa qualità, quello del sudore, delle scarpe, di uno spogliatoio di una palestra, la puzza di fumo che impregna i tessuti, il respiro nei dormitori per gli studenti, il pungente profumo di detergenti e dei saponi a basso costo, sommati a chissà cos’altro, producono un risultato unico, irripetibile eppure così uguale. È l’odore del carcere. Da San Vittore all’Ucciardone può essere più o meno intenso, ma è sempre uguale”. Si apre con queste parole il romanzo-testimonianza di Francesco Cascini intitolato ‘Il giudice e il camorrista’, edito da Tipografia Helvetica e accompagnato da una prefazione di Carla Del Ponte. La storia prende avvio con i ricordi di un magistrato (diciamo sin d’ora che l’io narrate coincide con l’autore stesso vista la forte impronta autobiografica che caratterizza la storia) che nella sua funzione di direttore dell’Ufficio ispettivo presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si occupava di verificare lo stato delle carceri italiane. L’autore ci conduce nei luoghi in cui i detenuti – in gergo i camosci (termine che ha origine dal fatto che un tempo i detenuti indossavano una divisa color giallo-marrone) – devono espiare le loro pene.

Il carcere ha un odore inconfondibile, è “l’odore della sofferenza, della cattività, della colpa, della rabbia o della rassegnazione”. Cascini – oggi tornato a svolgere la funzione di procuratore pubblico – si interroga su quale senso possa avere rinchiudere sei persone in una cella di nove metri quadrati e, soprattutto, che valore possa avere la pena dopo tre o quattro anni trascorsi lì dentro: sono interrogativi laceranti ai quali si possono dare forse delle risposte solo tentando di distanziarsi emotivamente da quegli individui e ricordarsi sempre che essi rimangono dei criminali che spesso hanno compiuto dei reati gravissimi, specie quelli del reparto del 41-bis, ossia coloro che sono stati condannati per reati di tipo mafioso. Anche attraverso questa prospettiva le cose non sono così limpide come si vorrebbe: accade così che un giorno come tanti, mentre si guardano negli occhi i camosci, riaffiorino con forza dirompente i ricordi della propria infanzia: essi conducono lo scrittore a confrontarsi con sé stesso, la sua professione e più in generale sulle possibili cause che portano molti giovani dei quartieri più poveri di Napoli ad abbracciare la strada della criminalità.

Varcare il confine

Cascini accompagna così il lettore a seguire le avventure di un timido ragazzino che dai quartieri alti decide un bel giorno di varcare il “confine” e scendere nei vicoli dove vivevano “loro”, quelli che i genitori di Francesco definivano diversi “da noi”. Cosa cercava il ragazzino in quei luoghi? Semplicemente qualcuno con cui giocare a pallone, con cui condividere la propria infanzia. In quel quartiere era tutto un fremito di vita: le stradine pullulavano di gente, i venditori urlavano le loro offerte, dappertutto vi erano sedie, tavolini, bambini che correvano e su ogni balcone era uno sventolio di bandiere del Napoli. Bastò poco allora per fare amicizia: “Ue’ ce sta stu guaglione ca ten o’ pallone”. Attraverso il gioco Francesco conosce Gennaro “recchia e puorco”, Pasquale “a banana”, Antonio “o’ sicc”, Giggin “o’ zuopp” e soprattutto il capo del gruppo Tonin “o’ cinese” (figlio di un delinquente rinchiuso nel carcere di Poggioreale) che per ragioni non del tutto chiare – e che per Cascini rimarranno per sempre avvolte nel mistero – aveva una simpatia per il nuovo venuto, e, soprattutto, lo teneva sotto la sua ala protettrice. Le partite di calcio diventavano spesso terreno di scontro, l’occasione per ribadire la propria forza e in tutto ciò “o’ cinese” si dimostrava il più violento, l’indiscusso capo. Francesco appena poteva frequentava il gruppo, quei bambini che sembravano già degli uomini: ben presto si rese conto che non andavano a scuola ed erano già avviati a una vita d’illegalità e, soprattutto, erano già pedine nelle mani della camorra. Tutto però in quegli anni appariva diverso agli occhi di Francesco: grazie alle sue conoscenze calcistiche permise al gruppo di vincere una bella somma al totonero. Alla riscossione però nacquero dei problemi: Tore “o’ animale” non volle pagare. Inevitabilmente la disputa ebbe un epilogo violento e, soprattutto, coinvolse il vero capo del totonero; tutti lo chiamavano Ciù Ciù.

Un destino segnato

Ormai per Francesco era anche chiaro che tutta la zona era un grande supermercato della droga e il sabato sera centinaia di “figli di papà” vi si recavano per comperare la “roba”. La famiglia del cinese “spacciava il fumo e aveva mantenuto, anche se ridotto, l’attività, dopo l’arresto del padre. Dopo aver visitato casa sua diverse volte avevo capito cosa fossero quelle stecchette argentate sull’asse da stiro. La madre, mentre faceva il ragù e guardava la televisione, le stirava rendendole leggermente più sottili, spesso aggiungeva del lucido da scarpe e da tre stecchette ne ricavava quattro o cinque. Avevo sentito il cinese che spiegava come riuscivano a campare solo allungando il fumo, altrimenti con quello che gli davano loro avrebbero fatto la fame”. Inevitabilmente i ragazzini dei vicoli crebbero velocemente e per Francesco lì non c’era più posto per un “figlio di papà”: il destino del cinese era segnato, così come di tutti gli altri. A Francesco non rimase che un senso di colpa per aver abbandonato senza spiegazioni i suoi amici; rimase, però, la consapevolezza che in fondo “lui avrebbe capito, che sapesse perfettamente chi ero e dove abitavo. Forse anche lui in fondo sapeva che la nostra amicizia sarebbe stata impossibile”.

Gli occhi erano i suoi

Il destino aveva però in serbo un’ultima sorpresa: Cascini molti anni dopo rivide il cinese in un carcere di massima sicurezza. Ci mise un po’ a riconoscerlo, il nastro dei ricordi doveva essere riavvolto, ma gli occhi, gli occhi erano i suoi! Il magistrato andò a rileggersi gli incarti del processo che lo aveva condannato all’ergastolo, voleva sapere…; si chiedeva se l’amico di un tempo lontanissimo fosse diventato quello che temeva. “Avevo sperato in una ragione per giustificare quella sensazione così netta d’ingiustizia che avvertivo, ma era tale solo nella mia testa”. Sì, il cinese era diventato un camorrista e un assassino. Forse tutto era già scritto in quelle parole che trent’anni prima gli disse l’amico: “Per campare nei vicoli devi tenere la cazzimma. Se ti fai mettere e pier in capa dal primo stronzo che arriva non tieni futuro. Nun te pensa nisciun, si nu scemo qualunque. In miez a via nun ci sta nient a fa’, si te miett paura nu riesc a campà”. L’ultima volta che Cascini lo vide dietro le sbarre gli disse, quasi a conclusione di quel discorso iniziato tantissimi anni prima: “Tutte le persone possono scegliere. Non esiste solo un mondo, né un solo modo di vivere”. E a noi che chiudiamo il libro non rimane che l’amarezza e la tristezza di una storia di violenza e solitudine.

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