Culture

Dammi solo il caldo potere del sole ('No Nukes', 40 anni fa)

Dalla Chernobyl della Pennsylvania al rock antinucleare del 'Muse'. Era il 1979. Ne parliamo con Carlo 'Mr Fantasy' Massarini e Pat Simmons, The Doobie Brothers

Madison Square Garden, New York, settembre 1979 (© Carlo Massarini)
24 settembre 2019
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«Tutta gente di cuore» la descrive Carlo Massarini, uno di quelli che possono dire “Io c’ero”, grazie anche all’amico Jackson Browne che gli procurò «ottimi biglietti, che per altro tutti pagavano, io compreso». ‘No Nukes’ fu la mobilitazione antinucleare che nel settembre del 1979 riunì sul palco del Madison Square Garden, per cinque notti di seguito (più appendici all’aperto), tanta buona musica da Springsteen a Chaka Khan, da Tom Petty a Jackson Browne, da James Taylor e Carly Simon a Bonnie Raitt, Ry Cooder, Crosby, Stills, Nash. “Dammi soltanto il caldo potere del sole” recita l’incipit di ‘Power’, sorta di tema portante dell’evento. Di quelle notti c’è anche chi può dire “Io ci ho suonato”, come Pat Simmons dei Doobie Brothers, che alcuni di quei concerti li chiudevano con la preghiera laica ‘Takin’it to the streets’. «Una causa in cui credevamo», la definisce il chitarrista. Una causa che ricorda gli odierni S.O.S. dei giovani in soccorso al Pianeta Terra che agonizza.

Tutto cominciò il 28 marzo di quarant’anni fa in Pennsylvania, quando alle quattro del mattino, con il reattore vicino al regime di potenza massima, un guasto al circuito di refrigerazione della centrale nucleare di Three Mile Island, sull’omonima isola, portò al raffreddamento del nocciolo causando danni ancora oggi monitorati (la messa in sicurezza di quel che resta è prevista per il 2034). Lo sconcerto prodotto da questa piccola Chernobyl fu amplificato dal film ‘Sindrome cinese’ (‘The China Syndrome’), che ne parrebbe la messa su pellicola, non fosse che uscì 12 giorni prima del disastro reale.


Three Mile Island, marzo 1979 (© Keystone)


Hershey Sports Arena, centro di evacuazione, marzo 1979 (© Keystone)

Tutto questo spinse Jackson Browne, Graham Nash, Bonnie Raitt e John Hall, assieme al giornalista e attivista Harvey Wassermann, a fondare il Musicians United for Safe Energy (Muse), il cui impegno non si è realmente mai spento, un po’ come le centrali: l’ultima reunion, infatti, fu quella del post-Fukushima, il disastro nucleare creato dallo tsunami che colpì le coste del Giappone l’11 marzo del 2011. Le cinque notti al Madison Square Garden sono riassunte nelle ventisette tracce di un triplo vinile (o unico cd) e in un docufilm dagli esiti tutt’altro che da blockbuster. Nel 1982, il Rolling Stone fece le pulci all’incasso, confutando l’entusiasmo iniziale per un’iniziativa che si sperava avrebbe distribuito diversi milioni di dollari tra le associazioni no-nuke sparse qua e là per gli States, ma che avrebbe raccolto non più di 600mila dollari.

Musicalmente, il ‘concertone’ si ricorda per lo Springsteen di ‘The river’ (e per l’esordio della E-Street Band); non di meno per Jackson Browne, la cui ‘Before the deluge’ diventerà l’inno (vale anche “poesia”) antinucleare della manifestazione. “Messi da parte i rumors sulla presunta reunion dei Beatles, è stato il più potente spettacolo pop degli anni Settanta” scrisse nell’ottobre del 1979 la stampa americana di quei cinque happening, più l’appendice al Manhattan’s Battery Park landfill, oggi zona residenziale rinominata Battery Park City. Complessivamente, 300mila spettatori, un ‘popolo’ che non si vedeva dai tempi del Concerto per il Bangladesh di George Harrison (1971). Per chi non c’era, raccolto in questa pagina, il racconto di quei giorni di attivismo e grande songwriting.


(© Carlo Massarini)

Intervista - Carlo Massarini: ‘L’idealismo è un setaccio: chi va oltre, pianta un seme’

Tra quelli che c’erano, macchina fotografica in mano, Carlo Massarini, giornalista, conduttore radio e tv, anche noto come ‘Mister Fantasy’ dallo storico format Rai. Scatti di ‘No Nukes’ stanno in questa pagina e nel suo libro ‘Dear Mister Fantasy’ (in autunno la ristampa). «L’ho vissuto abbastanza da vicino», ci dice. L’Italia gli deve lo sdoganamento di Jackson Browne, uno dei fondatori del Muse. «Grazie a lui potei acquistare buoni posti e fare belle foto. Partecipai anche alla giornata gratuita a Battery Park per chi non riuscì ad accedere al Msg. E alla marcia su Washington, dove al Campidoglio ci fu un’altro happening antinucleare».

Chiamano ‘No Nukes’ l’ultimo colpo di coda di Woodstock. È corretto?

Un colpo di coda lungo, visto che erano passati undici anni. Forse il colpo di coda degli anni Sessanta, ma preferisco chiamarlo un colpo di coda d’idealismo. ‘No Nukes’ voleva essere una ripartenza, non un fatto nostalgico, riprendendo quello stesso spirito libertario, ecologista, di popolo, antisistema. Three Mile Island fece scalpore, per gli americani abituati al nucleare una fuga radioattiva in casa fu una sorpresa. Contribuì anche l’uscita di ‘The China Syndrome’, film ispirato proprio a questo. Le due cose insieme scaldarono l’opinione pubblica, fu così che nacque il Muse. Il tentativo era quello di recuperare una voglia di denuncia del sistema in favore delle rinnovabili. Non a caso il logo di No Nukes era un sole.

‘The Times They are A-Changing’, cantarono quella sera Taylor e Nash…

Sì, si sperava in un cambiamento dopo una decade che Tom Wolf chiamò “Me generation”, il “mi faccio gli affari miei”, all’insegna dei grandi gruppi, dei grandi guadagni, di una cocaina molto pervasiva. ‘No Nukes’ fu considerata come una possibilità di redenzione e una ripartenza verso un’ecologia diversa e un vivere diverso. Una situazione che si è mantenuta calda per alcuni anni e poi, come sempre succede nella vita, arrivano altri problemi, priorità. In quel momento, fu certamente una cosa importante.

Che aria si respirava in quei giorni?

Gli spiriti erano molto motivati, fu un grande momento di partecipazione popolare. È ovvio, sono state anche serate memorabili di musica, non tutti quelli che andarono ai concerti sarebbero poi diventati attivisti dell’antinucleare. Però se ne parlò molto. E poi fu musica con una causa, cosa che permette sempre una lettura superiore.

Fu anche e soprattutto l’evento di Jackson Browne…

Jackson non ha mai avuto grandi manie di protagonismo. Sentiva la responsabilità, ci mise la faccia e molto di più. Chiamare a raccolta tutti quei musicisti non fu cosa da poco, e la risposta fu una condivisione, senza primedonne, a parte Springsteeen che, per quanto in quel momento l’artista americano più popolare, si mise comunque al servizio della causa. Dal punto di vista di Jackson, fu credo il momento nel quale per la prima volta in maniera visibile, ostentata, uscì dal ruolo di cantautore per diventare un attivista, cosa che sarebbe poi proseguita negli anni successivi con ‘Lives in the balance’, ‘World in Motion’ e tutta una serie di dischi contro le politiche americane. Per lui fu un momento importante, era al centro di questa cosa. E intorno aveva musicisti di cuore, gente che negli anni avrebbe rivelato una certa qual nobiltà d’animo, non rockettari fini a sé stessi...

Springsteen, il suo ‘No Nukes 1979’ l’ha pubblicato a dicembre...

Springsteen fu travolgente. Anche quando trascinò sul palco l'ex fidanzata Lynn Goldsmith. Lui non voleva essere fotografato da lei, obbligata a stare nel pit dei fotografi a 20-30 metri. Ecco, quello non fu un momento troppo memorabile per lui. Anche agli eroi gli si tappa la vena ogni tanto...

Il fervore ecologista non si è mai spento. Eppure non ti pare che i giovani attivisti del 2019 abbiano la stessa purezza di fondo di quelli di 40 anni fa?

Greta è una giovane idealista, se vogliamo prendere lei come simbolo. Poi, è più facile prenderla in giro che confrontarsi. L’aver movimentato centinaia di migliaia di ragazzi è interessante perché in genere dalle manfestazioni i giovani sono esclusi. Si manifesta contro il fascismo, per salvare il lavoro, ma è gente già grande. Sì, quel che accade oggi ricorda quel che facevamo noi tra il ’68 e il ‘70. A Roma stavo al Convitto Nazionale, a un tiro di schioppo da Valle Giulia, e pur non essendo mai stato un attivista partecipai ad alcune manifestazioni. E il pubblico era di quell’età. Greta mi ha riportato indietro nel tempo perché per la prima volta vedo in piazza i ragazzini. Il che è bello, perché una parte di loro, tra 10-20 anni, penseranno di essersi divertiti, ma che non glie ne fregava più di tanto, e ad altri rimarrà un seme dentro. Del resto, l’idealismo si propaga così, servono simboli e gente che si entusiasmi. È come un setaccio, qualcuno passa, qualcuno resta lì. E chi va oltre pianta un seme.

Non per essere cinici: servirà?

Quanto siano efficaci i movimenti che operano sulle coscienze invece che sul sistema vero è una bella questione. Non so dove riuscirà ad arrivare l’onda di protesta per salvare pianeta, però meglio che ci sia piuttosto che non ci sia. Il potere lavora nel silenzio. Se qualcuno si mette a guardare con la torcia, solleva il problema. Chi ne è interesato, si darà da fare.

Non per essere catastrofici: dove stiamo andando?

Quando le persone che hanno potere minimizzano il global warming come Trump, o titolano ‘Vieni avanti Gretina’ come Feltri, pare una causa persa. Ma la lotta contro il potere è sempre stata una causa che sembra impossibile da vincere. Poi, ogni tanto succede di vincere. Rispetto a ‘No Nukes’, oggi non si tratta di chiudere impianti, o affidarsi energie rinnovabili, che ora sono una realtà anche in Cina. Il problema è che oggi l’unico vero interesse è quello economico, e se la gente non capisce che in futuro, da economico, l’interesse diventerà di sopravvivenza, il mondo collasserà. Dove stiamo andando? Il problema è quello che si poneva Jackson in quei giorni, ovvero quale mondo vogliamo lasciare ai nostri ragazzi. E oggi il discorso non è solo ecologico, ma anche morale. 


Pat Simmons, The Doobie Brothers (©Andrew MacPherson)

Intervista: Pat Simmons, The Doobie Brothers: ‘Sempre attenti, soprattutto ora che si nega il pericolo’

«Gran parte degli artisti che vi parteciparono sono ancora musicalmente attivi. Tra quelli ci siamo anche noi». In rappresentanza di chi suonò al Madison Square Garden quell’anno abbiamo chiesto ricordi a Patrick ‘Pat’ Simmons, chitarrista dei Doobie Brothers, storica band statunitense. Quasi 50 milioni di dischi, 4 Grammy, la loro ‘Depending on you’ apre il doppio vinile di ‘No Nukes’; ‘Takin’it to the streets’ lo chiude, cantata dall’allora vocalist e tastierista Michael McDonald, prima che questi intraprendesse una brillante carriera solistica. «È attivo anche John Hall, uno dei principali organizzatori, co-fondatore degli Orleans», esordisce Simmons. «Anni dopo, Hall fu eletto alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Non ci sentiamo da tempo. Ma ognuno di noi è ancora attento e propositivo in termini di ambiente. Supportiamo i leader progressivi e tutti quei politici che lavorano per portare beneficio al pianeta e agli esseri viventi».

Di quella grande festa pop-rock, Simmons ricorda «l’orgoglio e l’onore per essere all’altezza di fare musica al fianco di tutti quegli artisti e persone fenomenali». Non di meno, l’aver portato avanti fermamente «una causa in cui credevamo, cercando di infondere ispirazione attraverso la musica, che per questi scopi può rivelarsi straordinaria». Quando gli chiediamo se gli studenti che oggi scendono in strada abbiano affinità con quelli del ‘79, più che il chitarrista, a parlare è il cittadino americano: «Sì, c’è affinità anche perché siamo ancora costantemente sotto attacco, a partire da un’Amministrazione che ha scelto di negare la pericolosità delle minacce che sono sotto i nostri occhi. È una scelta regolata dall’avidità, che sembra preoccuparli assai più che il riscaldamento globale, l'inquinamento della nostra acqua potabile, la distruzione delle barriere coralline, gli Ogm, i pesticidi, il fracking, le fuoriuscite di petrolio e sostanze chimiche, le perdite dei vecchi reattori atomici. Dobbiamo agire per tutto questo, e dobbiamo fare altrettanto per le 40mila persone che muoiono ogni anno per le armi da fuoco e le 70mila che ancora oggi muoiono per droga. Dobbiamo agire subito, dobbiamo agire adesso, per il futuro dei nostri figli». 

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