Culture

Irvine Welsh a Bellinzona, 'Le culture della droga' (parte I)

In collaborazione con il festival Babel pubblichiamo, in due parti, il testo di Welsh dedicato a come è cambiata la cultura della droga da ‘Trainspotting’ a ‘Porno’

14 settembre 2019
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Qualche anno fa, tornando a casa a Edimburgo, ho incontrato per strada una mia vecchia conoscenza. L’ho trovato un po’ peggio dell’ultima volta che l’avevo visto. Trascinava i piedi e sudava molto, ma non appena mi ha messo a fuoco, gli occhi, ansiosi e compiaciuti, gli si sono illuminati. Ero sicuro che avrebbe provato a chiedermi qualche spicciolo per l’eroina, e mentre lui preparava il suo approccio, io elaboravo mentalmente le mie scuse. Ma mi sono preoccupato invano perché Don (non è il suo vero nome) non voleva soldi da me – ne aveva già abbastanza per il suo fabbisogno immediato – voleva invece la roba. Devo ammettere che sono rimasto un po’ sorpreso quando ha biascicato «adesso sono gli studenti che ciànno tutta la roba». Non mi sembrava una cosa molto plausibile: gli studenti agiati delle Home Counties che dominavano la scena universitaria di Edimburgo non avevano mai mostrato una propensione al consumo di eroina a nessun livello della vita culturale della nostra città. Casomai alla cocaina. O all’ecstasy nelle discoteche, certo. Ma all’ero… D’altra parte la gente stava facendo un sacco di cose che in passato non aveva mai fatto. C’era questo mio amico, un professionista, un tipo erudito, che non aveva mai voluto saperne del crack e adesso si sballava con tutti i cristalli di Scozia. E c’era la massaia che solo qualche anno prima avrebbe usato il bicarbonato di sodio per gli scone, invece di lavarci la coca. Ho provato a spiegare a Don, con fare paternalistico, che non stavo più nel giro da parecchi anni. E più lo guardavo più ero felice di esserne uscito. Lo avevo sempre considerato un automedicatore pragmatico, uno ovviamente un po’ instabile ma capace di ripristinare il suo equilibrio con l’eroina. Come molti tossicomani incalliti, era riuscito a stabilizzare la dipendenza grazie al metadone. Ma la recente separazione dalla sua compagna di una vita lo aveva devastato, e aveva ricominciato ad andarci giù di peso. Uno dei grandi problemi dell’eroina è che pretende sempre da te quel tanto di impegno in più. Anche dopo che hai smesso da anni, continua ad annidarsi nel tuo vocabolario emotivo, sta lì in attesa del tuo primo passo falso, del prossimo lutto o fallimento sentimentale.

Quando ho deciso di scrivere il mio primo romanzo, Trainspotting, l’ho fatto in risposta a certi fattori. Il più importante di questi era la città in cui ero cresciuto e che ormai consideravo un luogo completamente diverso dal ritratto che ne offrivano i media e la macchina del turismo. Edimburgo aveva sviluppato una cultura compiaciuta di sé, che ruotava intorno al festival internazionale delle arti e pensava che a rappresentare la popolazione locale fossero solo gli avvocati della Città nuova. Un’assurdità abbastanza ovvia, ma questo giudizio comune aveva raggiunto un’egemonia tale che per concedere una parvenza di credibilità a chi si azzardava a scrivere del proletariato cittadino, c’è voluta la più grande epidemia europea di AIDS associata al consumo di eroina. Complice di tutto questo, un’industria turistica tradizionalista e preconfezionata che sin dai suoi albori, ossia da quando Sir Walter Scott tentò servilmente di ingraziarsi il tronfio e alcolizzato principe reggente, si era sempre rifiutata o quasi di cambiare. Ma, com’è probabile che succeda a tutti gli scrittori, avevo anche un motivo più personale per scrivere Trainspotting. Cercavo di dare un senso alla mia esperienza da eroinomane e al rapporto che allora avevo con l’ecstasy attraverso la cultura rave e acid house. Dopo avere smesso con l’eroina, ero restio all’uso di qualsiasi droga che non fosse il socialmente e legalmente accettabile alcol, e all’inizio avevo resistito a quella che chiamavano «rave culture» o «acid house culture». A parte il pericolo potenziale delle droghe in generale, era difficile essere attratti dalla prospettiva di guidare per chilometri e poi starsene in piedi e al freddo in un campo ad aspettare che iniziasse una festa, che oltretutto poteva essere annullata o interrotta in qualsiasi momento. Ovviamente non avevo ancora preso una pasticca. Dopo averlo fatto, tutto mi sembrava perfettamente logico e non me lo sarei mai perso per niente al mondo. Ho visto persone represse e inibite diventare campioni scatenati di tattilità e passione nello spazio di pochi minuti. L’interfaccia tra la droga, la musica e l’evento era impressionante; proprio quello di cui avevamo bisogno all’epoca.

Ciò che mi colpiva di più, però, era che quelli che venivano ai rave e si facevano di ecstasy non erano i soliti irriducibili scoppiati. Ogni tanto vedevi la faccia di un raver per strada, in ufficio o sull’autobus, e ti scambiavi un’occhiata d’intesa. Era un vero e proprio impero invisibile, e una rivoluzione sociale a tutti gli effetti. Naturalmente c’è sempre il lato negativo. Oltre a rompere le barriere interpersonali, l’ecstasy poteva corrodere i confini sociali e psicologici naturali che ci eravamo costruiti per proteggerci. Alla lunga, per ogni rapporto nuovo ed esaltante che acquistavi, c’era una relazione sana che perdevi. In più, molte persone hanno cominciato a vivere solo per il weekend, e i postumi infrasettimanali – le depressioni apatiche – non facevano altro che rendere ancor meno attraente la vita normale. La tolleranza alla droga è aumentata e per molti le dosi massicce di MDMA, il principio attivo dell’ecstasy, non erano più sufficienti. Gli stili della musica dance si moltiplicavano e divergevano, e gran parte della sensazione di unità che alimentava quell’ambiente alla fine è evaporata. Ma la peculiarità della musica house era che apparteneva a un certo gruppo di persone dentro a un determinato giro: era solo nostra. Questo purtroppo è sfuggito alla stampa giovanile presumibilmente esperta e all’avanguardia. Pubblicazioni come «The Face» e «NME» hanno ignorato la cultura della musica dance, che allora ha prodotto una stampa propria. Credo che in quegli anni la cultura e la sottocultura fossero cruciali per capire come mai certa gente assumeva determinati tipi di droghe. Trainspotting parlava di una sottocultura proletaria dei tossici edimburghesi. I personaggi erano sostanzialmente innocenti, dei ragazzini che appartenevano a quella generazione in cui la risposta educativa a qualsiasi tipo di droga proveniva – come sempre del resto – dalla scuola fallita e screditata, ma resiliente, del «basta dire di no». Dall’assortimento di figure autoritarie che includeva genitori, insegnanti, assistenti sociali e operatori sanitari, i trainspotters si sentivano solo dire «non drogarti perché la droga ti uccide». Peccato che quel consiglio non trovasse un grande riscontro nelle loro esperienze reali. La gente fumava le canne e continuava a vivere. Beveva alcolici e sopravviveva. Ingoiava e sniffava anfetamine ed era ancora lì a raccontarlo. Le figure autoritarie non avevano dimostrato niente se non di essere ignoranti, spaventate e fuori dalla realtà. Così le strade di Edimburgo sono state invase prima dall’eroina farmaceutica di fabbricazione locale e poi dall’eroina base a basso costo, la brown sugar importata dal Pakistan. Poiché il consumo aumentava di pari passo con la disoccupazione di massa, per l’ennesima volta l’eroina veniva accolta con il solito lamentoso monito del decesso imminente. I miei genitori mi dissero che fumare l’erba mi avrebbe ucciso (e si sbagliavano) oppure mi avrebbe portato sulla strada dell’eroina, che mi avrebbe ucciso. La seconda ipotesi di morte era probabilmente giusta, ma non per i motivi che credevano loro. I fumatori accaniti di marijuana e gli eroinomani sono quasi sempre due tipologie di drogato molto diverse, e fumare erba non fa desiderare l’eroina più di quanto non lo faccia bere del tè. Gli spacciatori, invece, spacciano di tutto, e paradossalmente è proprio l’illegalità della catena di approvvigionamento controllata delle droghe a indurre le persone a provare sostanze che a cose normali forse non sceglierebbero. Quando è esplosa quell’epidemia di eroina, le figure autoritarie naturalmente hanno gridato al lupo una volta di troppo, anche se, più per caso che per altro, nel loro mantra c’era un po’ di verità. La gente cominciò a sentirsi male, ad andare in overdose e a contrarre l’HIV – che all’epoca si pensava colpisse solo gli omosessuali – attraverso la condivisione delle siringhe.

Dieci anni dopo Trainspotting, il mio nuovo libro, Porno, ha rivisitato gli stessi luoghi e gli stessi personaggi. Anche se la storia di Porno si concentra soprattutto sulle altre nostre grandi dipendenze – il sesso, il denaro, la fama e il potere – le droghe vi giocano un ruolo comunque importante, seppure di secondo piano (in ogni caso, scrivere un romanzo sulla vita sociale britannica contemporanea senza fare alcun riferimento alle droghe non lo ritengo possibile). Ma confrontando i due libri, è interessante notare come, nel periodo che li separa, le tendenze dei consumatori di droga siano profondamente e forse irreversibilmente cambiate.

Quando scrivevo Trainspotting ero di fronte alla cultura delle droghe degli anni Ottanta, e anche dei primi anni Novanta. La differenza cruciale è che allora c’erano culture e sottoculture della droga ben definite. Quello che succede in Porno, che è poi quello che cerco di asserire qui, è che oggi non esiste più una vera cultura della droga in quanto tale, perché la cultura del consumismo ha inghiottito tutte le culture e continua imperterrita a farlo, complice la globalizzazione. La musica attuale, per esempio, si rivolge al mercato in modo molto più esplicito. Non importa più tanto la provenienza quanto l’essere un prodotto confezionato e venduto in un certo modo. I canali guida del mercato musicale sono le popstar e i pop idol. Una volta era la cultura o lo «scenario» a produrre il proprio sound particolare. Oggi la musica e l’artista si presentano secondo una nozione di percezione basata su ricerche di mercato o sulla moda del momento, in pratica su quello che vogliono «i giovani». E quindi, invece di ambienti pieni di energia con le loro caratteristiche culture della droga, abbiamo un consumo passivo e sterile.

1 – continua

 

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