Culture

Il segreto di Montalbano? È nei dettagli

A vent'anni dal primo episodio, mentre ne stanno per arrivare altri due, indaghiamo le ragioni di un successo enorme e inaspettato con il suo regista

(Duccio Giordano)
5 febbraio 2019
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«I turni di lavoro sono incessanti e Montalbano e i suoi uomini si prodigano davanti a un compito nuovo e particolare. Raccontare in un film quello che il pubblico ha già visto nei telegiornali di questi ultimi anni...». Questo il problema del regista, quando la realtà cerca spazio nel perimetro protetto di una serie di successo, e richiede corpo e sostanza, sfuggendo le superficialità. Dunque, come scrive nelle note di regia, Alberto Sironi ha passato le sue notti in attesa degli sbarchi, per documentare che cosa comporta l’accoglienza verso chi attraversa il mare in cerca di riparo o di un futuro. Il risultato lo si potrà vedere fra una settimana su Rai Uno nel primo dei due nuovi episodi del Commissario Montalbano, ‘L’altro capo del filo’, dal romanzo omonimo di Andrea Camilleri. Un tema spinoso, nell’Italia dei porti chiusi, che forse solo un personaggio come Montalbano può permettersi di portare in prima serata alla tv pubblica. Ma il regista precisa, con un filo d’ironia: «Quando Camilleri ha scritto il romanzo la Lega non aveva ancora vinto le elezioni. Lui ha cercato di spiegare che la cultura araba ha regalato alla Sicilia, all’Italia e all’Europa delle cose che sarebbe giusto ricordare... Parla di porti aperti, anche in senso culturale».

Vent’anni e 34 episodi dopo, Sironi torna a riflettere con noi sulle ragioni di un successo inaspettato, che ha contribuito a veicolare nel mondo l’immagine di una regione splendida come il Sud-est della Sicilia. E dire che nel 1999 ci si aspettava una produzione di nicchia...

Come si spiega ciò che è accaduto?
«Ci sono tante ragioni che si uniscono e concorrono al risultato finale. Noi, tanto per cominciare, abbiamo un vantaggio: dietro di noi c’è uno scrittore. Generalmente, in tv, questo è raro: uno scrittore solo all’origine di un prodotto. Dopodiché, c’è stato lo sforzo di mantenere le persone con cui avevo deciso di lavorare: il direttore della fotografia, lo scenografo, il musicista, l’operatore... A differenza di tanti altri casi, abbiamo fatto in modo che il prodotto rimanesse nostro; ed è stata una bella guerra, non era facile»...

Peraltro Montalbano incarna una serialità anomala, il filo orizzontale è tenue: ogni episodio è un film...
«Quella è stata una battaglia fin dall’inizio. Mentre in tv tutti usavano il 16 mm, noi abbiamo girato sempre in 35 mm, a parte gli ultimi episodi in cui siamo per forza passati all’elettronica. Era una scelta precisa, volevamo un’immagine molto più profonda, soprattutto nei campi lunghi. Fin dall’inizio abbiamo chiesto cose un po’ più da cinema e il produttore ci ha ascoltati. Per dire, lo scenografo, Luciano Ricceri, viene da Fellini e Scola. Abbiamo puntato sulla qualità, il più possibile. Ed è andata bene a tutti».

Montalbano conferma che per restituire il valore di un testo sullo schermo bisogna prenderne le distanze?
«Bisogna proprio tradirlo, devi capire ciò che sta sotto le parole. Se prendi le parole come tali e poi le trasferisci in cinema, fai semplicemente un’illustrazione. Se invece provi a capire quello che cerca di dire lo scrittore con tutto il suo meccanismo, allora forse riesci a beccare qualche cosa».

Ecco, Camilleri in quanto ex uomo di tv ha colto questo sforzo?
«È stato sempre corretto e molto rispettoso. Solo all’inizio, siccome lui conosceva Zingaretti come suo ex allievo all’Accademia di teatro, mi ha chiesto: “Perché hai scelto proprio un pelato e così giovane?”. E io gli confessai che, scegliendo i personaggi, avevo scelto di ringiovanirli un po’... Pensavo che così la storia potesse prendere un po’ più di movimento. In ogni caso, quando vide il primo film, disse: “Mi sono piaciute pure le comparse”. Poi, nelle sceneggiature, è sempre stato molto attento a capire da un lato se restavamo coerenti con il suo linguaggio – che è anche un’invenzione – dall’altro se mantenevamo una certa attenzione al plot delle storie, spesso complesso».

Perché Zingaretti, romano, era l’attore giusto per Montalbano?
«Ha fatto un provino eccezionale. Si è presentato con un monologo da uno dei romanzi, molto lungo e molto difficile, e devo dire che era nettamente il più bravo. Io vengo dal teatro di Strehler e in Montalbano c’è un senso del teatro, Camilleri racconta oggi un mondo i cui punti di riferimento sono nella sua giovinezza: lui è venuto via dalla Sicilia a 20 anni e non è più tornato. Noi avevamo difficoltà a rendere le storie in questo modo magico, per cui i nostri film non sono naturalistici, ma ci sono cose che non hanno senso: le strade e le piazze vuote, l’auto strana del commissario, poche comparse quando servono e magari tante quando non servono, un tipo di struttura nel racconto e nel modo di recitare molto teatrale. Scegliere Luca è stato importante: ha capito subito che c’era questo tipo di materiale».

Appunto, la sua formazione teatrale l’ha guidata nella cura per i personaggi secondari? In ogni film, volti e caratteri s’impongono...
«Su questo aspetto ho dovuto combattere, all’inizio i funzionari tv non capivano. Senza i siciliani autentici al di sotto, i protagonisti non sarebbero stati in piedi: quel tipo di linguaggio necessitava di qualcuno che lo usava quotidianamente. Questo l’ho capito grazie al lavoro su Goldoni: senza i siciliani nei ruoli piccoli avrei perso lo zoccolo duro che permette ai protagonisti di recitare».

Visto che i luoghi immaginati da Camilleri sono nella zona di Agrigento, che cosa l’ha guidata verso Sud-est?
«All’inizio siamo andati nei luoghi della giovinezza di Camilleri, ma lì quella Sicilia e quello che lui raccontava non c’erano più. Allora ci siamo spostati verso Ragusa, in una zona ancora molto agricola. Adesso anche lì iniziano a costruire un po’ troppo, ma resistono quei luoghi che riportano a una Sicilia più lontana, magica, con quelle piazze barocche da cui anche i sindaci hanno poi iniziato a togliere le auto. Camilleri è molto preciso nel raccontare atmosfere e personaggi, mentre il paesaggio lo abbiamo inventato noi».

Forse è servito l’occhio del regista di Busto Arsizio?
«Questo l’ho detto anche a Camilleri: siete stati fortunati, perché noi del Nord abbiamo un’attenzione verso le immagini del vostro mondo che voi non potete più avere, perché siete cresciuti lì dentro e certe cose non le vedete più. Anche i romani, quando passano davanti al Colosseo, non lo guardano più».

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