Culture

‘Chiedimi chi sono’, le badanti salgono sul palco

Debutta la prossina settimana al Teatro Sociale ‘Natasha ha preso il bus’ di Sara Rossi, un viaggio fra volti e storie di donne venute a “portare amore”

31 ottobre 2018
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Dopo la laurea in Lingua e letteratura russa a Venezia, dopo una stagione di lavoro e di vita a Odessa, sul Mar Nero in Ucraina, le imprevedibili traiettorie della vita hanno portato Sara Rossi a Livorno. Qui, alla ricerca di un eventuale punto di contatto fra il mondo che si lasciava alle spalle e quello che andava ad incontrare, si è imbattuta in un bus: Odessa-Livorno. Quel bus negli anni l’ha seguita, con i volti, le voci e le storie delle persone che lo hanno preso, piene di speranza e di timore nel futuro che le attendeva. Ne sono così scaturiti i primi incontri, le interviste, l’idea di riportarli e trasfigurarli in un testo teatrale in cui quelle voci di donna si incrociassero; e poi l’esigenza di ampliare il tutto in un libro in cui accogliere ulteriori punti di vista sullo stesso mondo, quello delle badanti che portano cura e «amore come una volta da Oriente i carri carichi di spezie».

Stiamo parlando di ‘Natasha ha preso il bus’ (‘Nataša prende il bus’ nella versione narrativa, per le Edizioni Ulivo), che giovedì 8 novembre debutterà al Sociale di Bellinzona per la regia di Laura Curino, un monologo a più voci interpretato da Ioana Butu, con Daniele Dell’Agnola alla fisarmonica. Dopo un pomeriggio di prove nella penombra tiepida del Teatro, Sara va incontro alla luce con il suo sorriso e ci confida che «mi emoziono come se non fossi stata io a scriverlo».

Nel libro, fra le altre, c’è Alina che è “qui da due anni e nessuno mi ha ancora mai chiesto com’è il posto in cui sono cresciuta; chi c’è a casa che mi aspetta; che cosa facevo prima di essere badante?”. Nessuno che le abbia chiesto chi è lei veramente? Questo forse il punto di partenza del tragitto di Sara, anzitutto come giornalista, nella quotidianità delle badanti che sempre più vengono a prestare cura anche nella Svizzera italiana: «Loro sono del tutto identificate con la loro professione, dopo il lavoro non tornano mai a casa, alla loro vita. È questa appunto la “sindrome della badante”: donne ancora relativamente giovani che passano il tempo con una persona anziana, al chiuso, sentendo sempre le stesse cose e ripetendo sempre gli stessi gesti, senza la famiglia né una vita sociale. Tutto per loro è lontano, nello spazio e nel tempo. Ci sono altri lavoratori che passano tanto tempo lontano da casa, ma hanno attorno a sé i colleghi, che creano un gruppo. La badante no, vive sul posto di lavoro, con il suo datore di lavoro».

Senza dimenticare, pur in un contesto in cui le condizioni contrattuali sono migliorate, l’equilibrio difficile su cui si regge questa relazione: «Ci sono persone che hanno ancora la “mentalità della domestica”, per cui si dà per scontato che la persona sia a disposizione sempre e per tutto. Al contempo nessuno vuole in casa una persona fredda, ma qualcuno che curi i propri genitori con affetto: anche questo può creare incomprensioni, tenendo conto che la parte più fragile è sempre la badante».

Perché hai pensato anzitutto al testo teatrale?
«Per la voce, la sua forza. Perché ho ascoltato la prima persona che mi ha parlato, una donna polacca. E la difficoltà più grande per lei non era legata tanto alle condizioni contrattuali, ma al fatto che nessuno le aveva ancora chiesto chi era lei. Ho capito così che un articolo di giornale non mi bastava, avevo bisogno di più per entrare nella storia di queste persone». Solo in seguito è arrivata l’intimità del libro – «un’opera di narrativa», seppure a partire da incontri reali, sottolinea l’autrice – in cui si sovrappongono altri punti di vista: le famiglie che decidono di affidare a qualcuno i propri anziani, i badati, l’autrice stessa... Un po’ come «comporre un collage».

Da dove è sorta questa esigenza?
«Più persone attorno a me stavano cercando una badante per una mamma o un papà. Se per le nostre nonne era ovvio prendersi in casa gli anziani, la generazione dei miei genitori è stata la prima a confrontarsi con un senso di colpa, perché hanno desiderato dalla vita qualcosa di più che non fosse sempre sacrificarsi. Mi sono resa conto che in questo mondo c’erano più persone coinvolte, mi sembrava giusto ascoltarle tutte».

 

Leggero e profondo, virtù dell’ascolto

Il suo sorriso non tradisce, Sara Rossi è una tipa ottimista. Dopo le prime letture sceniche con Ioana Butu e l’interesse espresso dal Teatro Sociale a produrre uno spettacolo, si è rimessa al lavoro sul testo. Poi si è detta, “la regista ideale sarebbe Laura Curino: quasi quasi glielo invio”... Il giorno dopo la risposta: “Chiamami”. Autrice, attrice e regista, oltre che direttrice del Teatro Giacosa di Ivrea, Laura Curino è di norma impegnata su più progetti alla volta. Dunque, che cosa l’ha attratta in ‘Natasha ha preso il bus’? «Lavoro volentieri su testi altrui, perché quando sei tu a scrivere cerchi ciò che già sai, mentre le proposte di altri ti fanno entrare dentro territori che magari non avresti frequentato. È come viaggiare: se uno non si muove, le domande e le risposte che si dà sono tutte vicine a casa sua. In particolare, in questo caso coltivavo da tempo il desiderio di lavorare sul tema della cura affidata alle badanti. Quando ho trovato l’e-mail di Sara mi son detta che a volte le cose, quando le desideri, ti vengono incontro».

Quali le qualità del testo? «Mi hanno colpito il fatto che fosse un testo con molto ascolto, la sua leggerezza e la sua profondità: tutti i personaggi sono radicati in una vita. Spesso i testi degli autori più giovani sono più superficiali, anche belli o ben costruiti, ma rivelano inevitabilmente un’esperienza di vita più limitata: pattinano un po’ sulla realtà. Questo no. I personaggi sono ben fondati nell’ascolto delle testimonianze, un ascolto che ha saputo trarre molto da loro».

Anche lei ha pensato subito a una sola attrice in scena? «No, c’erano molte soluzioni possibili, tutto dipende dal tipo di produzione. Noi abbiamo scelto una sola attrice, rumena, che parla italiano ed ha conoscenza delle altre lingue dei personaggi; ed è perfetta. Io sono un’attrice che fa spesso monologhi, ma non il monologo interiore novecentesco, che mi annoia un po’. Al contrario, quando attraverso il corpo di un’attrice passa un universo, quello è il fondamento dell’attore: essere tutto. Occorre solo che l’attrice sia brava e noi siamo fortunati con Ioana, e con Daniele che con la musica crea il paesaggio attorno a lei».

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