Culture

Nataša prende il bus – Storie di badanti, madri, figlie

Questo libro s’immerge con sensibile curiosità in una realtà contemporanea tanto diffusa quanto, spesso, ignorata. È il mondo delle badanti, in genere provenienti dall’Est.

2 giugno 2018
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Mi chiamo Nataša, vengo da Trapovka, che è in campagna vicino a Odessa, in Ucraina.

La notte in cui il governo sovietico è caduto, noi al villaggio non abbiamo saputo niente. Ci siamo accorti che qualcosa non andava, perché alla televisione non c’era più nessun programma. Lo schermo era tutto blu e per due giorni hanno trasmesso la musica del Lago dei Cigni di Cajkovskij. Poi la vita non è cambiata subito. Qualcuno è partito con il primo treno, qualcun altro ha alzato i prezzi, per fortuna mia mamma ha pensato di ritirare tutti i suoi risparmi dalla banca. Chi li ha lasciati, dopo un paio di mesi non ha più potuto riaverne nemmeno la metà. Molti dei nuovi ricchi si sono fatti così, prendendosi i soldi dei piccoli risparmiatori e dichiarando bancarotta. Ci siamo veramente resi conto che non c’era più l’Unione Sovietica alla fine del mese, quando il salario non è più arrivato; al primo guasto alla caldaia, quando l’idraulico ha presentato il conto a noi invece che al governo; alla prima occasione in cui abbiamo avuto bisogno dell’ospedale e abbiamo scoperto che la sanità non era più un diritto gratuito. E poi è iniziato il ballo dei prezzi.

Trapovka, mille e seicento abitanti. È pulita. Ci sono tre strade, parallele, alberi da frutta, gli steccati azzurri e le case. Ogni casa ha una panchina davanti, sulla strada. Le donne la domenica si mettono sempre lì, e parlano. Gli uomini, vanno al bar. Ogni casa ha due giardini, quello dei fiori e poi, dietro alla casa, quello degli animali e l’orto. Noi abbiamo tre stanze bianche, d’estate il sole ci nuota dentro, non abbiamo molti oggetti. Un tappeto in terra, uno appeso al muro, di bellezza. Abbiamo il gas ma l’acqua no. La toilette è fuori. Mia mamma era maestra, per pulirci al bagno usavamo i quaderni dei suoi allievi di matematica. I miei genitori avevano uno spazzolino solo, e uno si lavava i denti la mattina, l’altro la sera, per risparmiare il dentifricio. Durante il comunismo tutta Trapovka lavorava in un kolchoz, una specie di fattoria di proprietà dello Stato. Anatolij, mio padre, era il responsabile della manutenzione delle 56 macchine del kolchoz. Le puliva, le riparava. Era rispettato e riceveva un buon salario. Quando lo Stato per noi è sparito, e io avevo 12 anni, tutto si è fermato. Oggi ci sono i macchinari che fanno la ruggine nei prati e lui quasi piange quando ci pensa. E naturalmente ci pensa sempre. La terra intorno al villaggio se la sono spartita gli uomini che lavoravano nel kolchoz. Anche mio padre possiede un ettaro qua e due là. Ma c’è chi compra e cerca di completare il puzzle, sono i ricchi e vinceranno. Il nostro ricco si chiama Fëdorovic di Zare, il villaggio bulgaro, è un uomo scintillante; il suo villaggio è chiamato bulgaro perché lì parlano bulgaro ed è stata la zarina Caterina II che lo ha creato e ci ha messo dei contadini bulgari, però è in Ucraina. Il nostro Fëdorovic scintillante è padrone di un terzo delle terre di Trapovka e di due negozi su sette. Ha portato in trattore tutti noi bambini e ha bellissimi denti d’oro. È bello e suo figlio ancora di più. Una volta, io ero già grande, Fëdorovic ha pagato parte del salario dei suoi dipendenti in lenticchie. I miei, che un po’ si erano messi a coltivare per lui, non le conoscevano come legumi commestibili e per settimane le abbiamo date da mangiare ai maiali. Adesso io so che le lenticchie le potevamo cucinare per noi. Prima non sapevo niente: non sapevo delle lenticchie né se i denti si lavavano prima o dopo mangiato. Gli stipendi erano bassissimi. Tutti noi volevamo partire. Avevo una sola amica restìa, diceva che le piaceva l’Ucraina, ma lei ha un carattere di ferro.

Un giorno ho preso un autobus per Kiev. Quello che parte la mattina presto e attraversa tutto il paese, dal Mar Nero, fino su in cima. Il bus più economico. Più stracolmo. Più lento, più rumoroso. Era ora di dare una mano ai miei genitori. Se restavo a Odessa potevo comprare loro degli spazzolini da denti in più; se emigravo in Europa potevo magari un giorno fargli costruire il bagno in casa. Capisci? Il conducente era turco, con i baffoni neri, i capelli folti, corti, sale e pepe e la camicia kaki. Sembrava che andavamo alla rivoluzione e mica a cercar lavoro in casa d’altri, come servi. Gli ho chiesto a che ora si arrivava a Kiev. “Oggi,” ha risposto. “Se Allah vuole oggi saremo a Kiev”. Porta male dire l’ora. Per tutto il viaggio ha cantato, fumato e parlato al telefono. “In sette ore dovremmo farcela,” mi dicono i passeggeri seduti al mio fianco. “Il treno ce ne mette otto, ma il pullman è più veloce”. Ogni tanto si ferma per la pipì, sale un venditore: vende la colla e per mostrare quanto è buona, incolla un pezzo di legno sotto un bicchiere. Non compro niente, il mio vicino prende uno sprizzascintille a batteria che dura sei mesi. Arriviamo a sera a Kiev, dopo undici ore di viaggio. A Kiev ci sono i bus per Livorno, l’Italia, il lavoro.

(‘Nataša prende il bus – Storie di badanti, di madri e di figlie’, Edizioni Ulivo, con prefazione di Daniele Finzi Pasca. Presentazioni martedì 5 giugno alle 18 da Ecolibro a Biasca con Sebastiano Marvin e giovedì 7 maggio alle 18 da Casagrande a Bellinzona con Michele Fazioli).

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