Culture

I want to be like Mike

Il festival ‘Strange Days’ dedica una serata a uno dei miti degli anni Novanta

24 maggio 2018
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A partire dagli anni Ottanta, e in parte già prima, il basket americano viene associato sempre di più ai campetti dispersi un po’ ovunque nelle grandi aree metropolitane di New York, Philadelphia e altre città. In quegli anni, il basket cresce a braccetto della cultura hip hop che si diffonde nei ghetti delle grandi città. D’altra parte, lo sport della palla a spicchi si sviluppa notevolmente anche grazie alla credibilità di cui gode, in Stati decisamente più agricoli e conservatori, presso scuole pubbliche e università. In Indiana, per esempio, nei licei e nelle università il basket è quasi una religione, e non mancano figure che vestono i panni del guru: come il mitico Bobby Knight che per tanti anni allenò la squadra dell’Indiana University. A livello professionistico, gli anni Ottanta sono dominati da due giocatori: Larry Bird ed Earvin “Magic” Johnson, uomini simbolo delle squadre più forti della lega, i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers. Larry, bianco, timido e riservato, e Magic, nero, affabile e sempre pronto allo scherzo. Sembrano fatti apposta per alimentare una rivalità perfetta che, dai tempi del college – dove i due si sfidano nella finale del campionato Ncaa –, si prolunga molto naturalmente nel mondo professionistico; tanto che, sull’arco del decennio, i due fenomeni si contendono ripetutamente il titolo di campioni della lega. Larry era famoso perché dall’alto dei suoi 208 centimetri sapeva fare con meravigliosa spontaneità tutto quanto fa parte del gioco del basket, dal palleggio al tiro, fino ai movimenti senza palla. Dal canto suo, Magic aveva fatto del passaggio vincente – l’assist – la sua carta da visita. Da gesto subordinato al tiro, con Magic il passaggio diventa un gesto altrettanto se non addirittura più spettacolare di una schiacciata. A volte, scorrazzando a velocità supersoniche da una parte all’altra del campo, Magic guarda da una parte e manda la palla dall’altra, senza che nessuno capisca bene cosa stia succedendo. Poi – questione di centesimi di secondo –, la palla magicamente ricompare nelle mani di un compagno pronto a finalizzare l’azione: un modo di giocare di Magic e compagni che fu caratteristico di quegli anni e che, per l’alto tasso di spettacolarità che sprigionava, venne soprannominato “showtime”.

L’arrivo di Michael Jordan

Negli anni Ottanta, come detto, il basket che contava finiva per coincidere con le grandi sfide fra questi due giocatori e le loro rispettive squadre. Ma sul finire del decennio qualcosa stava cambiando. L’attenzione del mondo del basket stava spostandosi altrove, e il nuovo fenomeno si chiamava Michael Jordan. Dopo un titolo vinto con l’università del North Carolina, Jordan entra nell’Nba nella stagione 1984-85 ‘draftato’ dai Chicago Bulls, squadra con la quale negli anni Novanta vincerà ben 6 titoli (’91-’92-’93 e ’96-’97-’98). Atleta simbolo di un’epoca, Jordan è stato anche una vera e propria icona nell’immaginario e nella cultura popolare degli anni Novanta. Con i suoi movimenti spettacolari ha sedotto gli amanti dello sport un po’ ovunque guadagnandosi, in pochi anni, il soprannome di Air Jordan per la sua capacità di librarsi nell’aria sfidando la forza di gravità. Jordan cambiò letteralmente il gioco del basket. Alcuni suoi tratti caratteristici, dalla lingua fuori mentre gioca all’eleganza delle movenze, a quel suo modo di portare i pantaloncini fin quasi sotto il ginocchio, diventano i nuovi sintagmi attraverso cui prende forma una nuova estetica del basket. Forse fu proprio quel suo stare a metà strada fra cielo e terra, mentre gli avversari si arrendevano alla forza di gravità, a renderlo un mito vivente; perché il mito è qualcosa che sta sempre in bilico fra immaginazione e concretezza, fra realtà e sogno, fra possibilità e aspirazioni, e che sfida i vincoli che limitano la nostra concezione del mondo. La stella di Jordan fu così folgorante che, anche a distanza di anni dal suo ritiro, la sua linea di scarpe e di abbigliamento sportivo targata Nike continua a essere fra le più vendute e desiderate dai giovani, che riconoscono nel simbolo iconico dell’uomo che vola le loro aspirazioni e i loro sogni. “I want to be like Mike” (voglio essere come Mike), recitava uno spot televisivo della Gatorade negli anni Novanta. A vent’anni di distanza, Michael Jordan è ormai lontano dai campi da gioco, ma i ragazzini continuano a comprare le sue scarpe, quasi che non avesse mai smesso di essere il giocatore che era un tempo quando, sul campo, nessuno riusciva a fermarlo. Certo, ci provarono i Detroit Pistons che crearono addirittura “The Jordan Rules” (“le regole di Jordan”) nella speranza di poter arginare il suo potere. Ma il tentativo fu vano, e dopo i Pistons nessun provò più a fermarlo veramente. Fuori dal campo, Michael fece parlare di sé in tanti modi, e ben presto i media cominciarono a far emergere anche una parte oscura dell’uomo Jordan, legata a una sua presunta propensione per il gioco d’azzardo. Ma se fuori dal campo Jordan non fu, forse, sempre propriamente esemplare, quel che più importa è che negli anni Novanta sul campo MJ riuscì sempre a far quadrare i conti.

Un evento speciale su Micheal Jordan

Nell’ambito di “Strange days. Un festival sui mitici anni 90”, domani venerdì 25 maggio a partire dalle 20 al Lux Art House di Massagno, si parlerà proprio di Michael Jordan. La serata prevede un intervento di Renato Carettoni, allenatore di basket e giornalista sportivo, che ci parlerà del modo in cui Michael Jordan ha rivoluzionato il mondo del basket. Dopo l’intervento di Renato Carettoni – moderato da Dario “Mec” Bernasconi – la serata proseguirà con la proiezione del film di Spike Lee ‘He Got Game’, un lungometraggio realizzato nel 1998 incentrato sul mondo del basket a stelle e strisce, in cui figurano diversi cestisti fra cui Shaquille O’Neal e lo stesso Michael Jordan. Info: www.invisiblelab.ch.

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