Culture

L’informazione abbandonata

La decisione di Facebook di privilegiare i contenuti personali potrebbe aumentare la diffusione di bufale

19 gennaio 2018
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E dire che nei primi tempi i social media erano visti, per il loro potere di far liberamente circolare l’informazione, come uno strumento di liberazione e ribellione contro i regimi autoritari. Un po’ come le fotocopiatrici e Radio Liberty che, negli anni della cortina di ferro, diffondevano nel blocco sovietico notizie sgradite al regime e contribuendo alla caduta del Muro.

Adesso troviamo Facebook chiamata a indagare su possibili influenze russe durante il voto sulla Brexit. Il parlamento britannico ha infatti trovato inadeguate le indagini già condotte dal social network che, stando alle accuse, si sarebbe limitato a controllare le reti attive durante la campagna presidenziale statunitense, senza andare alla ricerca di nuovi utenti e gruppi come invece dovrà fare adesso.

I social media sono insomma passati da strumento di emancipazione dei popoli a mezzo di diffusione di fake news per scopi economici (guadagnare con la pubblicità) o politici (influenzare l’opinione pubblica). E al di là degli scenari geopolitici dietro a queste accuse, è interessante chiedersi che cosa stia realmente facendo Facebook per contrastare le fake news. La risposta sembra: poco. La decisione, annunciata nei giorni scorsi, di privilegiare i contenuti di amici e conoscenti penalizzando quelli ‘istituzionali’ di gruppi e aziende – tra cui le testate giornalistiche – potrebbe infatti portare a una maggiore diffusione delle bufale. È quanto afferma il New York Times che analizza che cosa è accaduto nei Paesi che hanno ‘subito’ una sperimentazione iniziata nei mesi scorsi (e che non è chiaro quando finirà) che prevede la completa separazione, in due pagine diverse, dei contenuti editoriali dagli aggiornamenti dei contatti personali.

Ora, le due operazioni sono diverse: da una parte una questione di priorità, dall’altra la separazione. Però gli effetti potrebbero essere simili, e se è davvero così abbiamo un grosso problema. “Le persone di solito non condividono notizie noiose che contengono fatti noiosi” ha spiegato un giornalista della testata slovacca Denník N che ha perso, con la sperimentazione di Facebook, il 30 per cento degli accessi. Un caso emblematico riguarda una bufala delle più classiche: il migrante che, aiutato da un passante, per ringraziarlo lo avvisa di un imminente attentato. La bufala è circolata condivisa tra gli utenti; le smentite – compresa quella della polizia – sono rimaste confinate nella scheda degli aggiornamenti istituzionali.

Ancora peggio in Cambogia e Bolivia, dove l’effetto è stato silenziare testate di opposizione e organizzazioni non governative, tanto da dare l’impressione, riporta il New York Times, che le autorità avessero messo al bando i contenuti politici da Facebook, diventato per molti abitanti di quei Paesi una, se non addirittura la, fonte di informazione indipendente. Magari tra qualche anno ci si abituerà a trovare altrove informazioni.

Nel frattempo, non c’è neppure la possibilità di protestare o avere informazioni: come ha raccontato il responsabile web del quotidiano di opposizione Página Siete, tutto quello che ha ottenuto è stata una risposta automatica da parte del servizio clienti di Facebook. Che, come ogni azienda privata, ovviamente si occupa prima di tutto dei clienti paganti.
Già, perché si è detto che quelli rilevati dal New York Times sono gli effetti di una sperimentazione limitata ad alcuni Paesi che non coincide con le nuove priorità stabilite da Facebook per tutti gli utenti. Ma c’è una cosa in comune: la possibilità, pagando, di superare le limitazioni. “Difficilmente riusciamo a trovare i soldi per pagare i nostri giornalisti, figuriamoci la diffusione su Facebook” ha commentato la responsabile di un’altra testata boliviana, Los Tiempos. Le autorità, invece, non avrebbero problemi a pagare maggiore visibilità per le proprie notizie di parte. Il rischio, ha concluso la redattrice di Los Tiempos, è di polarizzare ancora di più l’opinione pubblica riducendo la pluralità dell’informazione.

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