Arte

Cinema poetico, narrativo e sociale

Nel primo fine settimana della Berlinale, i titoli che convincono e quelli da dimenticare

Il regista del poetico 'Dovlatov' (foto: Keyston)
19 febbraio 2018
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Sei i film in concorso nella prima giornata di un weekend lungo in una fredda Berlino che apre la competizione ricordando in “Dovlatov” di Alexej German Jr la poesia di Sergei Dovlatov (1941-1990), indicato insieme al premio Nobel Joseph Brodsky come il più importante poeta sovietico dell’era post staliniana.

Fuori concorso è passato contemporaneamente “The Happy Prince” che Rupert Everett regista e attore ha voluto dedicare, in una produzione che vede impegnata anche l’Italia, a Oscar Wilde. Proprio questo becero film, capace di “sputtanare” in un finto biopic, la figura del grande scrittore, aforista, poeta, drammaturgo, giornalista e saggista irlandese, ci ha fatto pensare alla pulizia morale, al pregevole linguaggio cinematografico impreziosito dalla maestria degli attori, alla profondità del discorso storico e culturale del film di Alexej German Jr. È questo “Dovlatov” un film incantevole nel suo impegno a non tradire il dettato poetico dell’autore che presenta. Il regista russo condensa, in pochi giorni del novembre del 1971, il suo sguardo su Sergej Dovlatov e sul mondo bohémien in cui si trova a vivere in una gelida Leningrado. Sono giorni importanti in cui l’autore cerca di dare un senso al suo lavoro e al suo stare al mondo. Ha appena divorziato dalla moglie, non ha i soldi per comprare una bambola alla figlia, sogna di essere amico di Breznev, e decide di rinunciare a lavori che intacchino la sua libertà d’autore. Vicino a lui c’è un circolo di letterati e artisti che cercano strade per uscire dal conformismo in cui è caduta la cultura sovietica. Qui il regista è attento a non datare le idee, e allora quel mondo che ancora pativa il peso della guerra conclusasi solo da venticinque anni e che era nella memoria di tutti come la fine dello stalinismo, diventa il mondo di oggi, dove la cultura subisce le peggiori censure, dove solo chi è raccomandato fa strada. Il caso di Dovlatov è significativo, fu riconosciuto solo dopo la morte. Bravissimo il protagonista Milan Maric, di rilievo la fotografia di Łukasz Zal.

Di buon livello anche “Eva” di Benoît Jacquot con una straordinaria Isabelle Huppert nella parte di una donna che si prostituisce per pagare un avvocato che faccia uscire il marito, un antiquario truffatore, dal carcere. Tra i suoi clienti incontra Bertrand (un Gaspard Ulliel incapace di reggere il confronto con la maestria della collega). Questi ha appena ucciso un famoso commediografo, con cui aveva un’intesa anche sessuale, rubandogli oltre i soldi anche il testo della sua nuova commedia finendo a diventare famoso per questa. Bertrand si innamora di Eva ritrovandosi in un gioco che porta alla morte della fidanzata e alla sua autodistruzione. Ben girato e con ottimo ritmo il film è tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1945 da James Hadley Chase (Londra, 24 dicembre 1906-Ascona, 6 febbraio 1985), già portato sullo schermo nel 1962 da Joseph Losey con Jeanne Moreau nel ruolo della Huppert.

I titoli che non convincono

Non convince invece “Transit” di un Christian Petzold che ha attinto all’omonimo romanzo scritto da Anna Seghers in esilio. Trasferita la vicenda dalla Francia occupata dai nazisti, immaginando oggi una Francia invasa dai tedeschi, il film racconta di un giovane fuggiasco pronto a emigrare in Messico. Una fuga non facile, in un mondo di migranti dove ognuno ha la sua storia da raccontare. Il romanzo era già stato portato sullo schermo nel 1991 da René Allio.

Non convince neppure “Figlia mia” di Laura Bispuri, coprodotto da Italia, Germania e Svizzera, un film che prende in esame il rapporto fra tre donne, una bambina, sua madre naturale (un’inespressiva Alba Rohrwacher) e la donna che le ha fatto da madre fin dalla nascita (una stanca Valeria Golino). Il tema è sicuramente importante, ma il film, rinunciando a dare carattere ai personaggi, diventa una facile commedia priva di ogni emozione, se non in una patinata e inutile superficie, soprattutto priva di un proprio linguaggio cinematografico.

Egualmente superficiale è “La prière” di Cédric Kahn, un film su un giovane drogato che finisce in una comunità cattolica di forte impronta confessionale, sita tra le Alpi. Dopo un inizio difficile si integra scoprendo l’amore con la figlia di un vicino della comunità. Per questo amore rinuncia all’idea di farsi prete, nonostante un miracolo avuto tra le montagne.

Tra canti e preghiere il film scorre senza fretta, anche qui tutto resta superficiale, tanto per aggiungere un titolo ai milioni di film che girano nel mondo. Ma il peggio della giornata in Concorso è stato il film svedese “Toppen av ingenting” (The Real Estate) su una vecchia signora (Leonore Ekstrand), cui il regista Axel Petersen (è in realtà suo nipote) insieme al co-regista Måns Månsson regala anche una sequenza erotica, costretta per vendere un suo immobile a prendere le armi contro i suoi inquilini. Si fa fatica a sopportarlo e si ride del dramma che racconta, c’è un vuoto di regia e di interpretazione, e si spera nel film che verrà.

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