Culture

La brutta politica

(© Ti-Press / Samuel Golay)
17 novembre 2017
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di Andrea Ghiringhelli

Continuano le riflessioni dello storico Andrea Ghiringhelli sui temi forti del nostro tempo. Dopo la sua analisi critica della sentenza di condanna di Lisa Bosia Mirra, alla quale sono seguite diverse opinioni di carattere culturale e politico, è ora la volta dell’analisi del ruolo dei politici chiamati ad amministrare la cosa pubblica all’insegna dell’utile trasparenza e del buon governo.

È piuttosto scontato dire che la democrazia sia il luogo simbolico del dialogo e della discussione. Ma Clement Richard Attlee, primo ministro inglese nel secondo dopoguerra, precisò che discutere con fervore va bene, ma poi si tratta di trovare il modo di far smettere di parlare e di darsi da fare: infatti le discussioni quando si prolungano all’infinito confondono, rimescolano, e talvolta insabbiano. La storiella mi è venuta in mente osservando le esibizioni poco edificanti del mondo della politica ticinese: si discute di inadempienze, di governanti che parlano, di altri che non dicono, di funzionari che decidono e vanno forse oltre il lecito. E le recenti performance non restituiscono l’immagine di un paese che avanza all’insegna del buon governo e dell’utile trasparenza: il richiamo all’etica pubblica non risuona imperioso nelle aule della politica e qualche volta è il teatro dell’assurdo a prevalere.

‘Converrebbe ritornare a parlare di cittadinanza, di bene comune, di servizi sociali. Ma l’impresa è difficile quando le differenze fra i gestori della cosa pubblica tendono a scomparire e le parole d’ordine della semantica mediocratica sono: compromesso, accordo equilibrato, giusto mezzo, intesa concertata’.

Thomas Reed, gigantesco speaker alla Camera americana dei rappresentanti a fine Ottocento, a proposito di un collega, proclamava con gelido sarcasmo che ogni volta che quel tale apriva bocca “sottraeva qualcosa al patrimonio della conoscenza umana”: qualche incauto, anche alle nostre latitudini, ha confermato la sottrazione. A dire il vero, la politica ticinese ha conosciuto altri momenti poco gloriosi, da non riporre fra le cose da tramandare ai posteri, ma un concatenarsi di scandali e inadempienze di tale ampiezza non si è mai visto, e mai si è avuta così netta la percezione che la politica sia a rimorchio di una burocrazia padrona del vapore: la nostra amministrazione fornisce buoni servizi, ma alcuni eccessi di zelo di qualche funzionario sono pure da annotare fra le cose da correggere. Tutto ciò alimenta inevitabilmente il discredito delle istituzioni, dei partiti, della politica. Statistiche e sondaggi ci avvertono che in tutta Europa vi è una tendenza al ribasso dell’indice di fiducia nelle istituzioni politiche. In Svizzera le cose vanno un po’ meglio, ma non in Ticino: sondaggi non troppo remoti ci hanno indicato che la fiducia nei partiti e nella classe politica era al ribasso dagli anni Novanta, e stava in particolare precipitando la credibilità dei nostri rappresentanti: i risultati elettorali hanno poi confermato. In attesa degli aggiornamenti, si può comunque certificare che dopo lo spettacolo degli ultimi mesi le quotazioni non sono al rialzo.

They do not move

Di fronte a questo panorama poco incoraggiante dobbiamo convenire che effettivamente la democrazia, soprattutto di questi tempi, fa sempre più fatica a promuovere la “virtù dei migliori” e all’orizzonte, nel folto bosco della politica, abbondano gli arbusti e le piante bonsai, ma gli alberi di alto fusto sono piuttosto diradati: mancano i profili carismatici capaci di ridurre l’incertezza dei nostri giorni, di dare forti visioni che facciano del futuro il tempo della politica, di rilanciare l’intrinseco legame fra politica come azione e l’ideologia come pensiero. La conseguenza: noi cittadini stiamo facendo la fine di Didi e Gogo, seduti sulla panchina ad aspettare Godot che mai arriverà. Infatti il nostro copione, a giudicare dalle esibizioni offerte, non prevede a breve un repentino salto di qualità della politica: “They do not move” concludeva Beckett, a proposito dei protagonisti della sua opera: appunto.

Drang nach der Mitte

Il filosofo canadese Alain Deneault constata che un po’ ovunque i mediocri hanno preso il potere e riesuma il termine di mediocrazia. Che poi indica ciò che altri designano come il tempo dell’aurea mediocritas: non si riferisce alla virtù della “giusta moderazione” cantata dal poeta latino, bensì allude a un mondo popolato da governi e parlamenti i cui caratteri dominanti e distintivi non sono né le capacità virtuose né le apprezzabili doti intellettuali. Dire che la politica è dominata dai mediocri non significa mettere in discussione le competenze utili, che magari ci sono e sono solide, ma sottolineare che la mediocrità è diventata un modello e il posizionarsi all’“estremo centro” un dogma, espressione di un conformismo dilagante, di un pensiero unico che non incoraggia lo spirito critico.

Mediocrazia

Il regime della mediocrazia coincide con il livellamento verso il mezzo: si è liberali, ma…, socialisti, ma…, pipidini, ma… ecc., e le differenze tendono a scomparire: perché i “ma” prevalgono sui partiti di appartenenza e gli estremi

non sono ammessi. È, a ben pensarci, la morte della politica, sostituita dalla “governance”, dove a contare è una pura questione di gestione aziendale – di “problem solving” suggeriscono gli esperti – : il pragmatismo puro è diventato il vangelo e non si amministra più sulla base di principi politici e di ideali da perseguire: cose di altri tempi! Il mediocre – ci spiega Denault – deve “giocare al gioco”: privilegiare il silenzio ed evitare la trasparenza quando occorre, non citare un determinato nome in un rapporto, essere generico su determinati aspetti e non menzionarne altri. Confessiamo, senza eccessivi pudori, che la politica ticinese sta offrendo un vigoroso contributo alla tesi del filosofo canadese.

Libera nos a mala politica

Gli episodi di mala politica non fanno che dilatare la sfiducia nelle istituzioni e nella classe governante. Come reagire al legittimo sgomento del cittadino? Forse bisognerebbe abbandonare le tentazioni dell’indifferenza e cominciare a dire di no: può essere un primo passo. Ricordate Stéphane Hessel, il venerabile centenario, diplomatico e intellettuale, recentemente scomparso, autore di quel libricino che ha fatto il giro del mondo qualche anno fa? Il suo pamphlet si intitolava “Indignatevi” ed è diventato un manifesto: invitava a resistere, a rompere con le vertigini del neoliberismo perché è ormai tempo che etica, giustizia ed equilibrio duraturo siano ristabiliti: non è l’obiettivo della mediocrazia che – precisa Denault, trovando conferme inoppugnabili – fa della forma di gestione liberista dello Stato la sua essenza e il suo credo. A tal punto che perfino la sinistra si è illusa che la teoria del “trickledown”, dello sgocciolamento della ricchezza dall’alto verso il basso valesse come un dogma universale, per tutti: si credette alla formula “neoliberismo gentile”, e abbiamo visto come è andata a finire.

T’aspettiamo fuori

L’indignazione è ciò che ha spinto, pochi giorni fa, alcuni esponenti della società civile a manifestare alle soglie del parlamento ticinese al grido vagamente ammonitorio “T’aspettiamo fuori”: non erano in molti, ma testimoniavano un sentimento assai diffuso: esprimevano con atteggiamenti espliciti l’abisso profondo fra tanta parte della società civile e la classe politica. Questa iniziativa in un certo qual modo ripropone il ritorno in primo piano del cittadino che attraverso una “partecipazione non elettorale”, “non istituzionalizzata”, “non convenzionale”, si riappropria simbolicamente della sovranità politica e accusa gli eletti nei Consigli della Repubblica, a cui l’aveva delegata, di averla tradita e di non più rappresentarlo degnamente. Nella democrazia rappresentativa l’ipotesi democratica regge fin tanto che vi sia un rapporto di “identificazione reciproca” fra eletti e elettori: ma la contestazione certifica un dissenso profondo che può arrivare a delegittimare la rappresentanza. Nella protesta appare comunque esplicita, in primo piano, la volontà di ricostruire un’etica pubblica dentro la politica. E non è cosa da poco.

La democrazia a sorteggio

Quasi in contemporanea sorge pure la proposta, tutt’altro che bizzarra ed eccentrica, di introdurre il sorteggio per certe elezioni. Presso gli antichi il sorteggio, unito alla brevità delle cariche, era considerato il pilastro dell’eguaglianza democratica: offriva a tutti i cittadini disposti a dare il nome la possibilità di essere scelti per sorte e di governare. Oggi il sorteggio trova infatti un’efficace applicazione nelle cosiddette democrazie deliberative (vedi ‘laRegione’, 7 dicembre 2015 e 18 febbraio 2016). Comunque, a prescindere da pregi e difetti della democrazia a sorteggio, è utile ammettere che questa proposta in fondo riflette tutte le preoccupazioni dell’iniziativa precedente: è il discredito della democrazia rappresentativa che sembra troppo spesso prigioniera di logiche che non rispondono all’interesse comune; è la constatazione che le elezioni come pure i parlamenti continuano ad essere dominati dai partiti, nonostante il fatto che essi non abbiano più il favore della maggioranza dei cittadini (che si astengono, non votano, votano scheda non intestata, o si affidano sempre di più a forme di partecipazione politica alternativa).

L’avvento del politico da riporto

In definitiva queste iniziative, così diverse in apparenza, sono entrambe una forma di contestazione della mediocrazia che non amministra più in funzione di chiari principi politici, ma secondo i celebrati criteri del pragmatismo aziendale, dove ciò che conta è il management e la governance. Forse converrebbe ritornare a parlare di cittadinanza, di bene comune, di servizi sociali. Ma l’impresa è difficile quando le differenze fra i gestori della cosa pubblica tendono a scomparire e le parole d’ordine della semantica mediocratica sono: compromesso, accordo equilibrato, giusto mezzo, intesa concertata. L’impressione è che le sane differenze ideologiche che un tempo consentivano proficui scontri fra politici di diversi schieramenti, non ci siano più perché l’estremo centro della mediocrazia non lo consente. E allora, con una certa inquietudine, vediamo infoltire a dismisura la categoria dei politici da riporto: vengono da tutte le parti, esibiscono un’etichetta, sempre seguita dalla congiunzione avversativa “ma” che li induce al centro: qualche volta accennano a un ringhio di dissenso, ma poi sono lesti a porgere i loro ossequi al dogma del pensiero pragmatico e a piegarsi a qualsiasi compromesso pur di incassare la ricompensa: ho qualche dubbio che sia un passo in avanti.

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