Culture

Le mine della società

Zygmunt Bauman
9 gennaio 2017
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Vi riproponiamo qui di seguito le riflessioni del filosofo e sociologo Zygmunt Bauman da noi pubblicate il 15 dicembre 2015.


Lo scorso febbraio (ndr. 2015), poche settimane dopo l’attentato alla sede di ‘Charlie Hebdo’, il sociologo Zygmunt Bauman ha tenuto una conferenza all’Accademia di architettura di Mendrisio, dialogando con Roberto Antonini di multiculturalismo e integralismo. Il testo di quella conferenza è ora pubblicato dall’editore Casagrande con il titolo ‘La convivenza’. Per gentile concessione ne pubblichiamo un estratto.

 Di recente ho cominciato a utilizzare la metafora del “campo minato”. Ciò che sappiamo dei campi minati è che sotto terra ci sono degli ordigni: prima o poi esploderanno, ma dove e quando non possiamo saperlo. Questa è la situazione in cui si trova il mondo oggi e le ragioni sono principalmente due: la prima ha a che fare con le migrazioni di massa e la seconda, che si lega immediatamente alla prima e che mescolandosi con quella dà luogo a una miscela davvero esplosiva, è la disuguaglianza, ormai fuori controllo, data dalla disoccupazione di massa in molti Paesi europei ed extra-europei. Prendiamo la Spagna, ad esempio: oggi il 25% della popolazione adulta risulta disoccupata. Si tratta di un fatto senza precedenti in Europa, dove fino a qualche decina di anni fa si poteva parlare di piena occupazione. L’incremento della disoccupazione si accompagna alla ricomparsa della figura dei working poors, lavoratori che hanno la “fortuna” di poter essere sfruttati a dovere, ma che con quello che guadagnano non riescono nemmeno a sopravvivere: se pagano le bollette, non possono dare da mangiare ai figli. Quella del working poor è una figura che qui in Europa avevamo dimenticato da tempo: ora è ricomparsa in Spagna, dove un terzo dei lavoratori guadagna meno di 645 euro al mese, che non è certo una somma tale da consentire a una persona di vivere tranquilla. Ma torniamo alla questione della “diasporizzazione”. Le migrazioni di massa non sono certo una novità nella storia moderna, basti pensare che dall’Italia, tra la fine del Diciannovesimo secolo e l’inizio del Ventesimo, sono partite in direzione delle Americhe 20 milioni di persone, che nel proprio Paese non trovavano lavoro e non potevano quindi costruirsi una vita. Le migrazioni sono sempre state massicce. Perché? Perché la modernità, il senso della modernità, è ossessiva e compulsiva: possiamo parlare di “tossicodipendenza” dalla modernizzazione. Essere moderni significa modernizzare. Una modernità senza modernizzazione è un vento che non soffia o un fiume che non scorre: semplicemente non ha senso. Perché la modernizzazione tende a produrre migranti? Perché crea persone “in eccesso”, che vogliono lasciare il proprio Paese. Esistono due fattori di esubero oggi assodati: il primo ha a che fare con il desiderio diffuso di ordinare, di ristrutturare la società per renderla migliore. Ogni volta che si cerca di introdurre un nuovo ordine o di riformare il precedente, accade sempre che alcune persone non vi si adattino. Le ragioni possono essere diverse: a volte queste persone dispongono di competenze non più richieste, o sono abituate a uno stile di vita che non ha più spazio nel nuovo ordine, oppure appartengono a un’altra religione, solo per fare qualche esempio. Il secondo fattore ha a che fare invece con la questione del “progresso economico”, ossia con la possibilità di produrre le stesse cose, ma a un costo più basso e impiegando meno persone. In entrambi i casi si crea migrazione. Ma se le migrazioni sono un fenomeno che esiste da secoli, dove sta la novità allora? Sta nella diversa reazione che le popolazioni autoctone mostrano all’arrivo dei migranti. In passato, quando arrivavano stranieri per stabilirsi in Europa, ci si aspettava che avvenisse un’assimilazione, che quelle persone cioè diventassero esattamente come noi, cessando di essere stranieri e accettando in toto il nostro modo di vivere. Ora questo non accade più. Poteva accadere quando il mondo era ancora organizzato secondo una gerarchia culturale e si credeva nell’evoluzione: alcune popolazioni si trovavano sul gradino più basso, noi su quello più alto e ovviamente erano quelle più in basso a doversi adeguare al nostro stile di vita, uno stile “superiore”, lo abbiamo perfino chiamato “Illuminismo”. La speranza che queste persone rinunciassero alla loro identità e diventassero come noi nasceva dalla convinzione che Paesi come la Svizzera, l’Italia, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna rappresentassero il più alto livello di civiltà. Le cose sono cambiate. Un esempio significativo in questo senso è quello dei migranti turchi che sono arrivati in Germania e lì vogliono restare: si comportano in maniera corretta, pagano le tasse e agiscono come un qualsiasi altro cittadino, ma non vedono alcun motivo per smettere di essere turchi. Possono essere buoni cittadini tedeschi e allo stesso tempo rimanere turchi. La stessa cosa vale per gli immigrati magrebini in Francia. Perché mai dovrebbero rinunciare alla loro identità? Credo che l’introduzione nel linguaggio politico contemporaneo dell’espressione “multikulti” si debba alla cancelliera tedesca Angela Merkel. “Multikulti” è un concetto che nasce dalla sovrapposizione di due diversi fenomeni con status molto differenti tra loro. Il primo è la multiculturalità. Oggi viviamo in società multiculturali, dove melting pot e coesione non si realizzano più. Ci troviamo di fronte a una situazione per cui, di fatto, in ogni città europea vi è una compresenza di persone che hanno culture e valori differenti, seguono modelli di comportamento diversi e vanno a pregare alcuni il venerdì, altri il sabato, altri ancora la domenica. È come se l’era dell’assimilazione si fosse ormai conclusa e fossimo “condannati” a vivere per sempre alla presenza di stranieri. Usciamo per strada e vediamo centinaia di stranieri, andiamo a lavorare e il nostro collega è straniero. Non si tratta più di un fenomeno circoscritto, ci riguarda da vicino. In una strada di Londra si possono trovare luoghi di culto islamici, cattolici, evangelici, ebraici, battisti e metodisti, tutti vicini, tutti a distanza di pochi passi. La società multiculturale ci pone di fronte a una sfida enorme, che richiede lo sviluppo di nuove competenze, di cui i nostri padri erano privi: per loro la presenza degli stranieri era del tutto transitoria. Solo adesso ci stiamo abituando all’idea che non sia così. In tutta franchezza, data la natura della nostra economia e le caratteristiche intrinseche al moderno stile di vita, che producono competizione tra i popoli e causano migrazioni, è molto difficile pensare di poter invertire questa tendenza. Dalla multiculturalità, secondo me, non c’è ritorno. C’è un altro concetto, però, che affiora dall’idea di “multikulti”, ed è il multiculturalismo, un derivato della multiculturalità, ovvero il comportamento di chi segue con rigore la propria cultura, anche se essa non ha nulla a che fare con la realtà in cui vive. Tutte le culture, secondo questo assunto, devono essere rispettate, semplicemente perché sono diverse. Il solo fatto di essere diversa dà a quella cultura il diritto a cristallizzarsi in uno stile di vita che si ritiene immutabile e proprio di questa cultura. Questo indirizzo politico ufficiale andrebbe messo in discussione perché, come mostra l’esperienza, provoca due conseguenze: da un lato sviluppa il “multicomunitarismo”, che non è una coesistenza di popoli, ma un vivere accanto in un insieme di comunità diverse, che non comunicano tra loro, restano separate e invece di creare ponti tracciano confini; dall’altro lato, conseguenza strettamente legata alla prima, c’è quella che il primo ministro francese Manuel Valls ha recentemente chiamato “Apartheid”. Valls ha definito la Francia un Paese dell’Apartheid, con una particolarità, però: l’Apartheid non è la politica ufficiale del Paese, al contrario. La politica ufficiale vuole la parità dei diritti umani. Il problema è che, nel tentativo pratico di attuare una convivenza tra le diverse culture, sono stati commessi così tanti errori che ciò che ora emerge spontaneamente e resta fuori dal controllo del potere politico è una sorta di società dell’Apartheid. Se vogliamo più libertà, dobbiamo rinunciare a parte della nostra sicurezza, se vogliamo più sicurezza dobbiamo rinunciare a parte della nostra libertà. Non c’è altra soluzione. La storia dell’umanità non somiglia a una linea retta su cui libertà o sicurezza aumentano di intensità, ma piuttosto a un pendolo: ciò che si verifica è un’oscillazione. Circa cent’anni fa Sigmund Freud affermava che l’infelicità delle persone dipendeva dalla loro rinuncia a un’enorme fetta di libertà personale a vantaggio di una maggiore sicurezza. Se Freud fosse oggi qui con noi direbbe ancora che libertà e sicurezza sono in contraddizione, ma darebbe una diagnosi opposta: affermerebbe che le persone soffrono perché hanno ceduto un’eccessiva quantità di sicurezza in cambio della libertà. Ci sono molti segnali che ci dicono che il pendolo sta cambiando direzione e che le persone oggi cercano più sicurezza: sono pronte a rinunciare a parte della propria libertà, combattendo per una sicurezza che significa libertà dal terrorismo e da quei pericoli che spesso i mass media tendono a esagerare. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che muoiono molte più persone per incidenti stradali che per mano dei terroristi: nonostante questo, la parola d’ordine oggi rimane “combattere i terroristi”. È in atto dunque un’inversione nel senso di marcia: come andranno le cose dipende solo da noi. Io sono assolutamente convinto che siamo noi a fare la Storia. Il futuro sarà ciò che faremo. Consapevoli o meno, siamo noi gli artefici del nostro futuro.

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