Culture

La vita dopo i sogni

‘Fai bei sogni’, nel riquadro Marco Bellocchio
14 dicembre 2016
|

L’intervista / Marco Bellocchio ci parla del suo film tratto dal libro di Massimo Gramellini

L’autore italiano si è misurato con il best seller, una storia però ‘che mi ha emozionato e coinvolto’. Una vicenda universale, per raccontarci senza scadere nell’attualità.

Il prete, interpretato (sempre magnificamente) da Roberto Herlitzka, a un certo punto prende di petto il Massimo ancora bambino: “Il se è dei falliti, qui dobbiamo vivere nonostante”. «Un’esortazione al coraggio, ad affrontare a viso aperto la vita» ci dice Marco Bellocchio. Ma il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea lo capirà davvero solo molto più tardi, quando la verità sulla morte di sua mamma gli si presenterà in modo inevitabile. Stiamo parlando di ‘Fai bei sogni’, il film che il regista italiano ha tratto dal romanzo di Massimo Gramellini, successo editoriale del 2012. Nel libro il giornalista-scrittore racconta la propria vicenda di orfano, che solo da adulto ha capito come è davvero morta sua madre in una notte d’inverno, quando lui aveva 9 anni. Il film è in uscita giovedì nelle sale ticinesi (c’è già al Lux a Massagno). E Bellocchio, pur attento al cinema giovane che si muove attorno a lui, si conferma lungo la sua strada.

Perché un autore con la sua storia sceglie di portare sullo schermo il best seller di un giornalista?
Non l’ho scelto, sono stato scelto. Io ho preso tempo e ho letto il libro, mi ha molto coinvolto la storia di questo bambino, poi adulto. Non entro nel merito del suo peso letterario, è la storia che mi ha interessato profondamente, per cui mi son detto che forse se ne poteva trarre una sceneggiatura; e ho coinvolto Edoardo Albinati, uno scrittore agli antipodi di Gramellini. Quindi il film è piuttosto fedele alla storia e ai personaggi.

Quando un autore sceglie una storia, forse è perché in quel momento essa appare più significativa. Questa storia, al di là dell’aspetto intimistico, perché è importante adesso?
I suoi temi sono assolutamente universali, molto più di chi si occupa dei problemi di oggi attraverso l’attualità. A me interessa lo strazio, il dolore di un bambino che perde una madre, e tutto il suo percorso per arrivare a un essere adulto ammaccato, un po’ rappezzato. Questo è uno dei temi più grandi dell’umanità. Io ho la pretesa, l’ambizione di affrontare dei grandi temi dell’essere umano.

C’è qualcosa che, oggi, nel raccontare il dramma di un bambino l’ha messa più alla prova?
Ho potuto lavorare bene perché ero circondato da persone che rispettavano un certo tipo di ricerca. Il discorso ormai è sempre quello della velocità, perché anche l’espressione e la rappresentazione si devono adeguare alla corsa della vita, in cui gli uomini fanno contemporaneamente tante cose. In questo ho difeso dei tempi a me naturali, per fare un film che, pur raccontando ciò che racconta il libro, lo fa in modo diverso. È un tipo di cinema che forse andrà in estinzione, non so. Questo modo di lavorare e di creare immagini è stato vittima di un sospetto, per cui Gramellini e Bellocchio non dovrebbero poter convivere. A Natale il film uscirà in Francia e quello sarà un test interessante, perché il libro è stato sì pubblicato ma Gramellini non è conosciuto, e il film potrà vivere di vita propria.

Protagonista occulta del film appare la morte, una presenza costante, sotterranea, pure quando non la si vuol vedere. Questo dice qualcosa del nostro modo di sfuggire l’idea della fine?
Ci dice di una doppia angoscia, della morte ma anche della sofferenza, del nostro tentativo di esorcizzarla con tutta una serie di difese fantastiche. Nel film l’adulto ormai si è corazzato, il suo lavoro gli dà prestigio, però è come se questo tenere lontano i sentimenti, la profondità delle cose, fosse legato a un non voler ritrovare quel dolore immenso che è stata la scomparsa della propria madre. Infatti, questa difesa regge fino al livello massimo di indifferenza a cui lo porta la sua professione, quando fotografa a sua volta un fotoreporter che fotografa una donna uccisa a Sarajevo, con un bambino che, proprio come lui, per sfuggire a un dolore assoluto, gioca con un videogame davanti al corpo della mamma. Al ritorno, il suo inconscio è come se esplodesse in una crisi di panico che non ha mai conosciuto: ha paura di morire.

 

IL COMMENTO

‘Bisogna vivere nonostante’

 «Ha paura di morire», ci dice Bellocchio del Massimo adulto, ormai giornalista affermato, di ritorno da Sarajevo. Laggiù, anno 1993, la morte gli si è imposta allo sguardo in tutta la sua forza, nel corpo di una madre freddata dai cecchini. Il suo bambino, in una stanza, non smette di giocare a un videogame. Quanto, anche da adulti, riusciamo a rimuovere di ciò che ci spaventa, ci angoscia, ci interroga più a fondo? Molto, a volte negandosi la stessa vita nella sua pienezza, come succede al personaggio interpretato da Valerio Mastandrea, che dà corpo sullo schermo a Massimo Gramellini. Però, se quest’ultimo era riuscito a superare indenne, anzi, utile alla sua carriera, il suicidio a pochi passi da lui di un affarista rampante di fine Prima Repubblica, non potrà restare immune dal contagio di quanto visto a Sarajevo. È in quel momento, al ritorno a casa, quando il panico lo assale alla gola, togliendogli il respiro, che la sua vita inizia a cambiare; la sua storia di uomo in cerca di risposte fin da quando aveva 9 anni, fin da quel mattino in cui si è risvegliato e ha scoperto che sua madre non c’era più. È la verità sempre elusa, negata, temuta che gli si para davanti all’improvviso, ancora da decifrare. In quel panico, in quel dolore c’è tutta la vita fino a quel punto sfuggita. È mentre inizia a temere di morire, che Massimo inizia finalmente a vivere. E ad avviarsi, finalmente, verso la verità sulla morte di sua madre. Questo aspetto, centrale nella storia raccontata da Gramellini (la sua storia), ci pare venga tradotto bene dal film di Bellocchio, con i suoi tempi capaci di valorizzare i particolari che rendono vera e densa di significato la realtà. Ignorare, esorcizzare, escludere il dolore e la morte dal proprio orizzonte sono esercizi vani, perdenti. L’angoscia si fa tanto più avvolgente, intossicante, debilitante quando si finge di non vederla. La vita, il suo motore, stanno anche nella nostra capacità di accogliere e affrontare i piccoli grandi dolori che la costellano; di riconoscerli, di riconoscerci. Come dice l’uomo di religione (nel film e nel libro), ma potrebbe essere anche un ateo, “il se è dei falliti, qui dobbiamo vivere nonostante

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔