Ticino

Fra Mauro, ‘Nessuno si salva da solo dalla pandemia’

'Fratelli tutti' di Papa Francesco si oppone ad una visione apocalittica, ‘Non è la fine’. Anzi, dice il frate, ci sono i semi di una nuova solidarietà

Fra Mauro Jöhri, per 12 anni, ministro generale di oltre 10mila frati cappuccini, qui con Papa Francesco
12 novembre 2020
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Il suo motto è ‘Sei ciò che dai’. Quattro semplici parole che rispecchiano il saio che indossa e la missione del suo Ordine. “Il nostro compito è la vicinanza all’altro, aiutare a costruire la pace, favorire l’istruzione, rispondere ai bisogni più urgenti. La bontà è un cemento che costruisce tutto”. Incontriamo fra Mauro Jöhri al santuario della Madonna del Sasso a Locarno. Da poco più di un mese è il custode (superiore) dei frati dei quattro conventi della Svizzera italiana.
Per 12 anni (dal 2006 al 2018) è stato ministro generale dell’ordine dei frati cappuccini (oltre 10mila fratelli presenti in 110 Paesi) ha viaggiato nei posti più sperduti e dimenticati del mondo, tra innumerevoli miserie umane. Là dove i riflettori non arrivano e nessuno vuole andare, ci sono loro, i missionari cappuccini, spesso l’unico salvagente per gli ultimi. Chi meglio di fra Mauro Jöhri può aiutarci a capire ‘Fratelli tutti’, l’enciclica sociale fresca di stampa di Papa Francesco. Gli chiediamo di spiegarla a credenti e non, di distillare il messaggio di ‘Francesco’. Un Papa che lui conosce bene. “Lo apprezzo molto per il suo stile immediato e fraterno. Non ha cambiato i contenuti della fede, ma ha portato un’ondata di freschezza e la determinazione nel voler semplificare le strutture di governo in Vaticano. Come arcivescovo di Buenos Aires ha conosciuto e frequentato i quartieri poveri della città e anche a Roma porta un’attenzione tutta particolare per loro. È un uomo tutto d’un pezzo, non ha paura di affrontare i problemi e sa irradiare fiducia”, ci racconta fra Mauro. 


Fra Mauro Jöhri con l'enciclica sociale di Papa Francesco 'Fratelli tutti"

Nell’enciclica lo si ripete spesso, siamo tutti sulla stessa barca, la pandemia ce lo mostra con forza, “nessuno si salva da solo, ci si può salvare solo insieme”. Nel primo capitolo ‘Le ombre di un mondo chiuso’ sono riassunte le innumerevoli storture della nostra società - come la deformazione della democrazia, egoismo e disinteresse per il bene comune, disoccupazione, razzismo, disparità dei diritti ... Alle ombre di una società malata di indifferenza, analfabeta nella cura degli ultimi, l'Enciclica contrappone però un esempio virtuoso, quello del Buon Samaritano. E chiede: Tu dove ti poni nell’accompagnare, proteggere e sollevare chi è caduto o è sofferente?


In tempi così difficili, dove tante certezza vacillano travolte da ondate pandemiche, timori economici e una generale insicurezza, che cosa ci comunica Papa Francesco?

La parola chiave di questa enciclica è ‘insieme’. Papa Francesco si oppone alla visione apocalittica, di chi interpreta la pandemia come il riemergere di grossi contrasti a livello economico e politico, come una corsa verso la catastrofe, verso la fine. Con questa enciclica ‘Francesco’ non nega le difficoltà, ma mostra che è possibile un altro mondo e punta molto in alto a un mondo di fratelli e sorelle.

Per costruire questo mondo di ‘fratelli’ servono mattoni, come la solidarietà e l’altruismo. Sembrano merce rara in un mondo piuttosto familiare all’egoismo o sbaglio?

Il mio motto è ‘Sei ciò che dai’. Quando si dona gratuitamente si cresce. La felicità è un cammino, la si scopre aprendosi all’altro, superando se stessi verso l’altro. Quello di ‘Francesco’ non è un appello moralistico (‘Siate buoni’), ma un invito a sperimentare che nella bontà pratica si scopre una dimensione di benessere.

Quale passaggio di ‘Fratelli tutti’ l’ha più colpita? 

Quello sul perdono e la riconciliazione. I conflitti esistono ma si può andare oltre. Francesco dice che perdonare non significa dimenticare. Come farlo ad esempio con gli orrori della Shoah? Facendo riferimento alle tragedie che l’umanità ha vissuto, ribadisce che non si possono certo dimenticare, ma si può rinunciare alla vendetta. Importante anche il discorso sulle culture, non si tratta di omologarle, perché dalla cultura dipende la nostra identità. Non si può negare alle persone la loro identità, ma occorre far crescere l’arte dell’incontro con tutti, senza annullarsi. Vale nel discorso tra le religioni, tra le civiltà, tra i centri di potere e le periferie del mondo. ‘Da tutti si può imparare qualcosa e nessuno è inutile’ (215).

La Chiesa è scossa da scandali, penso ai casi di pedofilia, a come nel passato questi preti spesso venivano spostati e non indagati, agli scandali finanziari in Vaticano: tutto questo non è fratellanza, lei come lo legge? 

È vero che da parecchi anni in qua sono affiorati innumerevoli casi in cui degli ecclesiastici hanno aggredito sessualmente dei minori causando danni gravissimi alle vittime di tali atti. Purtroppo un tempo si pensava di risolvere la cosa destinando il colpevole a un’altra sede. L’istituzione proteggeva se stessa noncurante della sofferenza delle vittime, rendendosi a sua volta colpevole. Anche il capitolo degli scandali finanziari che sono emersi più di recente rappresenta un fatto molto triste in seno alla chiesa, minandone fortemente la credibilità. D’altra parte è un bene che si faccia la verità su tutto, perché non credo vi sia altro modo per giungere a una vera anche se sofferta purificazione.

Cosa dire a chi oggi vive nella paura della pandemia e delle sue conseguenze? 

I timori sono fondati, soprattutto quello di perdere il lavoro. La pandemia mette in crisi i valori della nostra società. Siamo usciti dalla prima ondata pensando di continuare a vivere come prima e oggi ci accorgiamo che non potremo più farlo. Nessuno si aspettava una minaccia così globale e tenace. Il pensiero non deve essere rivolto al passato, ma occorre guardare avanti. Osserviamo che cosa nasce di nuovo. La pandemia ha anche attivato meccanismi di reciproca solidarietà. Sono semi di un approccio nuovo alla vita. 

C’è chi si chiude a riccio e chi esce e aiuta gli altri. Siamo una comunità globale che naviga sulla stessa barca. Francesco dice, ‘Nessuno si salva da solo, dobbiamo farlo insieme’. È questo che la pandemia ci insegna?  

La pandemia impone distanze, fa sentire la mancanza della prossimità dell’altro, aumenta il rischio di una solitudine subita e non cercata, ma soprattutto amplifica il valore dell’amicizia (come quando sai che puoi contare su qualcuno) e del volontariato. Penso che andrebbe intensificato in Svizzera. A Milano, la mensa dei poveri dell’Opera San Francesco distribuisce tremila pasti al giorno gratuiti e attraverso la collaborazione di 150 medici volontari, offriamo settimanalmente 500 visite mediche gratuite a chi non può permetterselo. Senza i pensionati volontari tutto ciò non funzionerebbe. In Svizzera, forse, si potrebbe fare di più.

In Svizzera c’è tanto volontariato. Di regola, siamo abituati a prenderci cura della cerchia di chi amiamo, come allargare questo raggio anche a chi ci è indifferente: l’altruismo si impara? 

Ci si arriva osando, abbattendo i muri che abbiamo dentro di noi che ci impediscono di leggere il valore di ogni persona. Sono tanti questi ostacoli, come il muro della ricchezza (io sono ricco e tu sei povero), della religione (io sono cristiano e tu sei musulmano), del genere (io sono un uomo e tu sei una donna), della categoria sociale (io sono un dirigente e tu sei un operaio) … ci impediscono di andare verso l’altro. Quando nell’altro vedo prima di tutto la persona senza appiccicarci un’etichetta, quando mi interesso davvero all’altro senza secondi fini. Ecco allora, e solo allora, entro in un vero dialogo.

Dopo tanti viaggi come ha ritrovato la sua Svizzera? 

Ho visitato novanta Paesi nel mio servizio di ministro generale, e penso che la Svizzera sia un modello ben riuscito di democrazia, impegno sociale, accoglienza, generosità. Il vero pericolo è la chiusura, dettata dalla paura di perdere il benessere raggiunto. Non dobbiamo dimenticarci come abbiamo costruito il benessere. Collaborazione, competenza, professionalità. È questo che dovremmo esportare. Mi preoccupa la politica che fa presa sulle paure. 

Là dove nessuno vuole andare, ci siete voi frati cappuccini. Lei ha viaggiato tra gli ultimi del mondo, che cosa l’ha colpita maggiormente? 

Ho vari ricordi impressi nella mia mente. Quando ero in Pakistan - dove i cristiani sono una minoranza e i missionari belgi hanno promosso la scolarizzazione - migliaia di allievi, allineati, mi hanno ringraziato per l’educazione ricevuta. Grazie all’istruzione sono usciti dalla povertà. Mentre a Capo Verde, nelle periferie di Mindelo, ho visto un frate pacificare una guerra tra bande giovanili, dove nemmeno la polizia andava. Si chiama padre fra Silvino, col metodo dell’oratorio (promuovendo spazi di gioco, musica e tanta formazione) ha portato la pace. Quei giovani disadattati oggi hanno una buona posizione in società. Noi frati non siamo qui solo per distribuire sacramenti, il nostro compito è la vicinanza all’altro, è diventare artigiani della pace, favorire l’istruzione, rispondere ai bisogni più urgenti, in tutti i nostri conventi in Europa quasi sempre c’è una mensa dei poveri. 

Come vi ricaricate voi frati, dove trovate tanta forza e tenacia, questa determinazione a non lasciare indietro nessuno? 

La forza viene dalla fraternità, come luogo dove si condivide lavoro, tempi di preghiera e anche momenti ricreativi. In paesi lontani, dove non si parla la stessa lingua ma si condivide un ideale di vita, ci si sente a casa. L’ho sperimentato più di una volta! Non c’è identità senza appartenenza. Se c’è un senso di appartenenza allora si può costruire insieme un’identità, si può fare insieme un cammino, basato su regole ma soprattutto valori condivisi: come credere che la bontà è un cemento che attira e costruisce tutto. 

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