laR+ CONTROLLI SUGLI STRANIERI

Permessi, l’ex giudice federale: ‘Metodi inammissibili’

Intervista a Niccolò Raselli sulle prassi imposte agli stranieri in Ticino: perquisizioni e interrogatori sproporzionati e invadenti

(Ti-Press)
28 ottobre 2020
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Finora, la discussione sulla severità del Dipartimento delle istituzioni quando si tratta di rilasciare permessi di soggiorno si è concentrata sulle contestazioni del Tribunale cantonale amministrativo (Tram), oltre che sulla rivendicazione di una “chiara scelta politica” da parte del Direttore del dipartimento Norman Gobbi. C’è però un altro aspetto messo in luce dal servizio di Falò (Rsi) dello scorso 3 settembre: le decine, a volte centinaia di controlli e appostamenti cui sono sottoposti alcuni richiedenti, ai quali verrebbe perfino chiesto di aprire il frigorifero e il cassetto della biancheria intima. «L’importante è riconoscere che di decisioni illegali il Consiglio di Stato e l’Ufficio della migrazione non ne hanno mai prese», ci aveva detto Gobbi. Ma si tratta di un operato proporzionato e rispettoso della privacy? Per allontanarci un po’ dalle reticenze e dalle inimicizie della politica cantonale, un’opinione siamo andati a chiederla a un navigato avvocato d’oltre Gottardo: Niccolò Raselli è stato presidente del Tribunale d’appello e del Tribunale amministrativo del Canton Obvaldo, e giudice federale dal 1995 al 2012.

Avvocato, cosa dice la legge? Certi controlli sono legalmente giustificati?

Nel diritto amministrativo – quello che include il diritto di polizia per i controlli sugli stranieri – non ci sono disposizioni esplicite riguardanti l’invasione della sfera privata, protetta però dall’articolo 13 della Costituzione federale, mentre la perquisizione nel corso di un’inchiesta penale è chiaramente regolata dall’articolo 244 del Codice penale e permessa su autorizzazione del giudice competente. In ogni caso, certi controlli al domicilio sono permessi anche nell’ambito di procedure amministrative, senza bisogno di un’autorizzazione giudiziaria: altrimenti non sarebbe possibile, ad esempio, verificare il rispetto delle norme edilizie e antincendio in un edificio. Vale però il principio della proporzionalità: ogni controllo di questo tipo deve limitarsi allo stretto necessario.

Controllare cos’ha una persona nel frigorifero o contarle le mutande nei cassetti per un permesso di soggiorno è proporzionato e necessario?

Le persone coinvolte hanno il dovere di collaborare, fornendo informazioni dettagliate e precise. Ma questo dovere non elimina il diritto alla privacy. Io ritengo che la condotta della polizia mostrata nel servizio della Rsi – l’apertura dei frigoriferi, l’ispezione dei cassetti con la biancheria – sia sproporzionata e costituisca un’inammissibile violazione della privacy. Peraltro, un frigo vuoto non dice nulla di decisivo sull’effettiva permanenza di una persona in Svizzera e sul suo centro d’interessi. I metodi che vediamo nel documentario sono quelli di una perquisizione nel corso di un’inchiesta penale. Solo in casi di procedure d’allontanamento la legge permette una perquisizione della persona e dei suoi effetti personali, per la messa al sicuro dei documenti di viaggio e d’identità.

Alcuni intervistati hanno detto a Falò di avere subito interrogatori di diverse ore senza assistenza legale. Che ne pensa?

Senza conoscere i casi concreti è difficile rispondere in modo definitivo. In ogni caso, però, faccio fatica a credere che dei colloqui per una pratica di permesso debbano durare diverse ore. Anche in questo senso deve valere il rispetto della sfera privata e del principio della proporzionalità. Si deve domandare solo lo stretto necessario. Inoltre ciascuno ha diritto di essere assistito da un legale, secondo il principio dell’equità. In più il principio della correttezza, che vale per la totalità delle procedure ufficiali, richiede che l’interessato sia informato alla convocazione del suo diritto di farsi accompagnare da un avvocato.

Al di là dei controlli e degli interrogatori, come interpreta l’approccio ticinese?

Posso immaginare che dietro a questi metodi più che discutibili vi sia il perseguimento di una strategia della ‘tolleranza zero’. Certo, non mi illudo che tutti i richiedenti un permesso rispettino la legge; ma se gli abusi si vogliono impedire al 100%, si finisce inevitabilmente per invadere la sfera privata in modo sproporzionato. E le persone che si comportano correttamente vivono questi controlli come una vessazione.

È possibile rifiutare i controlli?

Sì, è possibile. Gli organi di polizia non hanno il diritto di rovistare in frigoriferi e cassetti contro la volontà degli interessati. Questi possono vietarlo e la polizia deve rispettare la loro volontà.

Ma così non si rischiano ritorsioni?

In effetti il rischio, rifiutandosi di aprire un cassetto o un armadio, è quello d’insinuare il sospetto che si stia nascondendo qualcosa. Questo può avere conseguenze negative sulla valutazione delle prove e sulla decisione finale, in particolare per quanto riguarda le conclusioni sull’effettiva residenza in Svizzera. A sua volta, questo timore può condurre gli interessati a sottoporsi giocoforza a controlli sproporzionati.

È possibile rivolgersi alla legge per ‘fare precedente’, in modo da scoraggiare certe pratiche in futuro?

È possibile. Ad esempio, una volta ottenuto un rinnovo del permesso la persona può comunque esigere a posteriori agli organi di polizia una decisione d’accertamento appellabile che riconosca come certe misure siano sproporzionate e quindi inammissibili. Questo potrebbe creare un precedente importante.

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