Ticino

Donna e capitana dell’esercito, oltre ogni cliché

Parla Olivia de Weck, avvocata e a capo di una compagnia di esploratori: ‘Amo la disciplina intesa come efficienza’

(Cellula di comunicazione del battaglione d'esplorazione 1)
26 ottobre 2020
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Si è parlato tanto di Fanny Chollet, la prima donna svizzera a pilotare un caccia. Ma quando si tratta di accogliere le donne nei suoi ranghi, l’esercito elvetico non eccelle: costituiscono solo lo 0,9% delle truppe. A titolo di paragone, la percentuale nei paesi confinanti sale al 3,6% in Austria, al 6,3% in Italia, al 12% in Germania e al 16% in Francia. I vertici dell’esercito sono consapevoli del problema, e si stanno impegnando in un’intensa campagna di sensibilizzazione e reclutamento. L’obiettivo è ambizioso: salire fino al 10% degli effettivi entro il 2030. Ma cosa vuol dire, oggi, essere una mosca bianca nell’esercito svizzero?

Classe 1986, la capitana Olivia de Weck è venuta a raccontarlo martedì scorso a Lugano, in occasione dell’annuale conferenza dell’Associazione per la Rivista Militare Svizzera di lingua italiana. De Weck: il cognome può sembrare olandese, invece richiama l’antica origine friburghese di una famiglia che alla classe dirigente del suo cantone ha dato Consiglieri di Stato, storici, artisti, medici e soprattutto tanti avvocati. Proprio come lei, che oltre all’impegno di milizia si occupa di contenziosi e arbitrati per uno studio legale di Ginevra. Come capitana di una compagnia esploratori, dirige corsi di ripetizione per centinaia di soldati incorporati nell’unità sotto il suo comando, guida enormi mezzi blindati tipo Piranha e Eagle, e dal 2005 ha già all’attivo 800 giorni di servizio.

Capitana de Weck, perché ha deciso di arruolarsi nell’esercito?

Per servire il mio paese – suppongo che si tratti di una motivazione piuttosto comune – e così in qualche modo per ripagare il privilegio di essere nata in Svizzera. E poi perché sono curiosa, voglio sempre scoprire cose nuove. E amo la disciplina, intesa come efficienza. Mi sono definitivamente convinta subito dopo una giornata d’informazione a Ginevra, e durante i tre giorni di reclutamento ho superato gli stessi identici test sostenuti dagli uomini.

C’entra anche la tradizione di famiglia?

Credo che l’educazione ricevuta in famiglia giochi un ruolo importante. Mio padre era a sua volta maggiore di milizia e avvocato. Le storie che mi raccontava quando tornava dal servizio mi hanno fatto apprezzare il senso di coesione, la possibilità di mettere in pratica le lingue e conoscere il Paese.

Lei è stata anche vicepresidente di Pro Tell e testimonial della campagna – persa – contro l’adeguamento della Svizzera alle normative europee sulle armi. Scegliere l’esercito è anche segno di simpatie di destra?

No, non bisogna confondere le due cose. La campagna sulle armi in effetti è stata sostenuta principalmente da destra. Ma questo non c’entra: nell’esercito si è tutti uguali, si indossa tutti la stessa uniforme. Ci si arruola per partecipare a un corpo coeso che supera tutti gli steccati in nome del paese, non per questioni ideologiche. Di recente mi sono comunque dimessa da Pro Tell.

L’esercito e il capo della Difesa Viola Amherd puntano sempre di più su figure femminili, non solo per il reclutamento, ma anche per campagne politiche come quella sui caccia da combattimento. Non teme che il suo impegno venga strumentalizzato, per di più in quanto donna e non in quanto individuo e capitana?

Quando si è una delle 1'253 donne all’interno dell’esercito ci si ritrova in una posizione particolare, questo è chiaro. Ed è chiaro anche che tale posizione, nel mio caso, comporta lo sforzo di fare avvicinare altre donne a questa esperienza. Si tratta di una scelta consapevole, significa aiutare l’esercito nel suo complesso e impegnarsi per una maggiore rappresentanza di genere. Sono io a servire l’esercito, non è l’esercito che mi utilizza. Poi non dimentichiamo che nelle ’alte sfere’ possiamo anche contare sulla divisionaria Germaine Seewer.

Nel suo intervento ha ricordato come l’esercito permetta anche di costruire una rete di conoscenze forti, utili anche sul piano professionale. In passato – oggi meno – tra ‘graduati’ e classe dirigente svizzera c’era una sovrapposizione sorprendente. Siete una lobby?

No, perché l’esercito non è un club chiuso: tutta la popolazione può accedervi ed è invitata a farlo, e nel corso degli anni di servizio si incontra un sacco di persone delle estrazioni più differenti. Quindi si tratta di un sistema per aprirsi al prossimo, non per chiudersi su se stessi.

Nel corso dei suoi quindici anni di servizio, le è mai capitato di sentirsi umiliata?

No, anzi. Di fronte a qualcosa di nuovo come una donna in divisa, gli uomini cercano di stare particolarmente attenti a evitare comportamenti scorretti. D’altronde, non mi è neanche capitato di sentirmi protetta in modo paternalistico, forse anche perché ho un carattere che mi permette di far capire subito chi sono e cosa mi aspetto.

Cosa dovrebbe cambiare all’interno dell’esercito?

Credo che abbia già saputo cambiare enormemente negli ultimi anni, sia in termini organizzativi che tattici e strategici, penso ad esempio all’impegno per la cyberdifesa. Si è fatto molto anche per rendere l’esercito più attrattivo per gli studenti e le donne. Anche la comunicazione è cambiata: la ‘grande muette’ (la ‘grande muta’, termine col quale in Francia e Romandia si designa l’esercito, storicamente noto per il suo silenzio pubblico, ndr) ha cominciato ad aprirsi sempre di più alla società civile. Di certo, se Viola Amherd vuole raggiungere l’obiettivo del 10% di donne nell’esercito sarà necessario spingere ancora di più sulla comunicazione e le testimonianze concrete, come la mia.

La Svizzera è protetta dall’ombrello Nato. A cosa serve un esercito, per di più di milizia?

Per la nostra credibilità e la nostra neutralità è fondamentale poter contare sulle nostre difese, senza dover dipendere da altre nazioni, per non parlare di tutti i compiti sussidiari affidati al nostro esercito. Inoltre non siamo membri della Nato. E penso che un esercito di professionisti sarebbe troppo costoso e non funzionerebbe. L’esercito di milizia è la nostra forza, perché riesce a fare incontrare competenze ed esperienze la cui varietà è impensabile altrove. Il nostro esercito è lo specchio della popolazione.

In questo senso, la sua stessa composizione riflette i cambiamenti sociali del paese. In tempi nei quali molti alimentano ancora la paura del ‘diverso’, può servire a conoscersi meglio?

Certamente. L’esercito accoglie una diversità sempre maggiore, vi si possono incontrare figli e nipoti d’immigrati che si sentono più svizzeri degli svizzeri. Il loro stesso vissuto li rende fortemente motivati, penso a chi arriva da famiglie che hanno attraversato l’esperienza della guerra. Anche le differenze contribuiscono all’arricchimento culturale di tutti. L’esercito permette di superare certe paure e molti cliché.

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